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Non è semplice incontrarlo, né meno ancora assaggiarlo. Il percebe è un crostaceo straordinario per habitat, gusto e valore culturale, una creatura marina che sfida le convenzioni biologiche e gastronomiche. Appartenente alla specie Pollicipes pollicipes, si tratta di un crostaceo cirripede, sessile, che vive aggrappato alle scogliere battute dalle onde dell’Oceano Atlantico nord-orientale.

La sua distribuzione geografica è precisa e limitata. I percebes popolano le coste rocciose della Galizia (in particolare nella provincia di La Coruña e lungo la “Costa da Morte”), del nord del Portogallo (tra Viana do Castelo e Peniche), del Marocco settentrionale (tra Larache e Tangeri), e in misura minore le scogliere esposte della Bretagna francese e di alcune isole Canarie. Gli esemplari migliori, per dimensione e sapore, sono generalmente considerati quelli galiziani, per via della forza delle maree e dell’ossigenazione costante delle acque.

Esteticamente inusuale, il percebe assomiglia a un artiglio preistorico: una lunga base carnosa, detta peduncolo, rivestita da una cuticola coriacea, e una parte terminale costituita da piastre dure che racchiudono l’apparato filtrante. Vive aggregato in colonie nelle zone intertidali, dove il moto ondoso è continuo e violento. Ed è proprio qui che si sviluppa una delle tecniche di pesca più dure e pericolose dell’intero panorama ittico europeo.

La raccolta dei percebes è un rituale che richiede esperienza, coraggio e preparazione fisica. I percebeiros – pescatori specializzati, spesso eredi di una tradizione tramandata di generazione in generazione – attendono la bassa marea per avvicinarsi alle scogliere, calandosi con corde o raggiungendole via mare. Indossano tute stagne, elmetti e scarpe con chiodi per affrontare rocce scivolose e onde imprevedibili. Con l’uso di un attrezzo detto raspón o espátula, staccano i percebes uno ad uno dalla roccia, cercando di preservare il piede del crostaceo senza danneggiare la colonia. Ogni operazione è una corsa contro il tempo: la marea risale in fretta, e bastano pochi minuti per trovarsi in balia dell’oceano.

Non è raro che si verifichino incidenti mortali: l’acqua, le rocce taglienti e la forza delle onde rendono questa attività una vera prova di resistenza. È per questo che il percebe non è solo raro, ma anche prezioso.

Dal punto di vista biologico, il percebe è ermafrodita ma richiede vicinanza ad altri individui per la fecondazione. Si riproduce più volte all’anno, ma solo una piccola percentuale delle larve riesce a sopravvivere e insediarsi con successo. In Spagna e Portogallo sono in vigore regolamenti stringenti che disciplinano la raccolta: limiti giornalieri per pescatore, rotazione delle zone di pesca, periodi di fermo biologico e tracciabilità del prodotto. Ogni percebes venduto legalmente è marcato da un’etichetta che ne certifica la provenienza e la sostenibilità della raccolta.

Il percebe è anche una prelibatezza gastronomica: la carne, contenuta nel peduncolo, è tenera, sapida, con note che ricordano ostrica e crostacei bolliti. Tradizionalmente, viene cotto per pochi minuti in acqua di mare e servito caldo, appena scolato. Non è raro che raggiunga prezzi superiori ai 200 euro/kg durante le festività natalizie o nei ristoranti gourmet.

È un prodotto che sfugge alle logiche industriali: non esiste un allevamento su larga scala, né tecnologie consolidate per la sua coltivazione. Questo lo rende l’archetipo del “cibo selvaggio” – difficile da ottenere, impossibile da replicare, profondamente legato al suo luogo d’origine.

Il percebe è molto più di un crostaceo: è una creatura estrema, legata a un paesaggio, a un gesto, a una cultura. Il suo valore va oltre il prezzo di mercato e si radica in un equilibrio fragile tra natura, rischio e tradizione. Conoscerlo, raccontarlo e rispettarne la complessità è un dovere per chiunque si occupi – a qualunque livello – di risorse del mare.

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