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Nonostante i segnali di ripresa degli stock, l’allevamento del tonno rosso continua a sollevare gravi interrogativi sul piano ambientale e istituzionale. Secondo il nuovo dossier investigativo pubblicato da Greenpeace Italia nel luglio 2025, il comparto sta vivendo una nuova espansione, favorita da una domanda globale in costante crescita, soprattutto in Giappone. Ma a questa corsa all’“oro rosso” si affiancano allarmi inquietanti: impianti inesistenti registrati a nome del Ministero, concessioni demaniali a società inattive e fondi europei gestiti con troppa leggerezza.

Il cuore della denuncia è la mancanza di trasparenza. Secondo i dati ICCAT – l’organismo internazionale che monitora la pesca del tonno rosso – in Italia esistono tredici impianti di ingrasso, ma solo tre hanno coordinate note, e solo sei indicano una capacità produttiva effettiva. Quattro strutture, che da sole conterrebbero l’80% del tonno allevato nel Paese, sono formalmente “di proprietà” del Ministero dell’Agricoltura: ma non risultano operative, non sono geolocalizzabili e, come ha confermato lo stesso Ministero, esistono solo “per esigenze di organizzazione interna”. In altre parole: impianti fantasma, usati per mantenere su carta una capacità che viene poi redistribuita ad altri soggetti privati.

Nel frattempo, a Battipaglia, una società senza dipendenti né fatturato – la Tuna Sud Srl – ha ottenuto una concessione per un nuovo allevamento del tonno rosso a 7 km dalla costa, appena al di sotto della soglia che impone la valutazione d’impatto ambientale. La località è già nota per problemi di inquinamento marino, e il rischio di peggioramento è concreto. Inoltre, il dirigente comunale che ha firmato la concessione è coinvolto in un’inchiesta per corruzione.

Il problema, però, non si ferma qui. Tuna Sud è parte di un’articolata rete societaria, riunita nell’Organizzazione di Produttori O.P. V.ITA TONNO, in cui compaiono sempre gli stessi cognomi: De Crescenzo e Ferrigno. Alcuni dei membri di questa struttura risultano citati anche nei Paradise Papers, con legami a società offshore maltesi. Non illegali di per sé, ma certo discutibili per un comparto che riceve consistenti finanziamenti pubblici. Tra il 2014 e il 2020, infatti, le società aderenti all’O.P. V.ITA TONNO hanno ottenuto oltre 915.000 euro in contributi pubblici, soprattutto per l’ammodernamento delle imbarcazioni.

Greenpeace non si limita alla denuncia. Chiede maggiore trasparenza nei dati ICCAT, obblighi reali di valutazione ambientale per ogni nuovo impianto, controlli stringenti sui fondi FEAMPA e l’approvazione – attesa dal 2006 – del decreto nazionale sugli impatti ambientali degli impianti di acquacoltura. A oggi, quel testo non esiste, e le strutture possono operare senza limiti chiari su densità, scarichi o benessere animale.

Le criticità sollevate nel report non sono nuove, ma l’intreccio attuale tra lacune normative, opacità istituzionali e interessi economici in forte espansione rende lo scenario particolarmente pericoloso. La “rotta italiana del tonno rosso”, promossa da alcune associazioni di categoria come motore di sviluppo, rischia di trasformarsi in un boomerang se non regolata con serietà.

Il dossier di Greenpeace rivela un sistema opaco nell’allevamento del tonno rosso in Italia, tra impianti non attivi ma registrati al Ministero, concessioni discutibili e fondi pubblici concentrati in poche mani. Urge una riforma vera: servono norme, trasparenza e controllo.

 

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