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Con una maggioranza schiacciante di 681 voti favorevoli, il Parlamento europeo ha approvato nuove norme per contrastare in modo più efficace la pesca non sostenibile dei paesi terzi che condividono risorse ittiche con l’Unione. Una decisione attesa da tempo, che risponde a una delle criticità più sensibili per la filiera ittica europea: la concorrenza sleale e l’indebolimento degli stock causato da pratiche irresponsabili nei mari limitrofi.
Il regolamento modificato, che entrerà in vigore dopo l’approvazione formale da parte del Consiglio e la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale, punta a rafforzare la capacità della Commissione di agire verso i paesi che non adottano misure efficaci per prevenire il sovrasfruttamento delle risorse marine condivise. Lo strumento giuridico, rivisto in modo più incisivo rispetto al passato, consente ora di applicare sanzioni concrete – tra cui il blocco delle importazioni – contro chi agisce al di fuori delle regole comuni, danneggiando i partner europei.
I nuovi criteri per identificare un paese extra-UE come “non cooperante” sono più dettagliati. Si considerano tali non solo i casi in cui un paese si rifiuta di avviare consultazioni o introduce unilateralmente quote discriminatorie, ma anche quando ignora sistematicamente le raccomandazioni scientifiche o non applica gli accordi siglati, sia bilaterali che multilaterali. È un passo avanti per la credibilità dell’Unione, ma anche per la tutela concreta degli interessi di chi opera nel rispetto delle norme.
Il significato per la filiera ittica
Per i professionisti della pesca e dell’intera filiera, il nuovo quadro normativo apre scenari più equi. La pesca non sostenibile dei paesi terzi è da anni uno dei fattori più distorsivi per il mercato europeo, non solo per ragioni ambientali ma anche economiche. A farne le spese sono soprattutto gli operatori onesti: armatori, trasformatori, distributori e buyer che lavorano nel rispetto delle regole comunitarie, spesso penalizzati da importazioni a basso costo frutto di pratiche insostenibili.
Il nuovo regolamento non è solo una questione di sanzioni: introduce finalmente anche un termine di 90 giorni entro il quale un paese extra-UE deve fornire risposte qualora venga segnalato come non cooperante. Inoltre, riconosce il valore del “miglior parere scientifico disponibile” come riferimento imprescindibile per la gestione condivisa degli stock. Un elemento che rafforza il legame tra scienza, politica e mercato.
Le esperienze passate insegnano: il divieto temporaneo di importazione contro le Isole Faroe nel 2013, poi revocato nel 2014, fu un esempio isolato. Oggi, con regole più chiare e meccanismi di risposta più rapidi, l’UE si dota di uno strumento più flessibile e applicabile, anche grazie al ruolo delle organizzazioni regionali per la gestione della pesca (ORGP), come la CGPM nel Mediterraneo.
Una risposta politica e simbolica
“Per così tanto tempo i pescatori si sono sentiti inascoltati nelle loro preoccupazioni, e questa proposta è la nostra risposta”, ha dichiarato il relatore Thomas Bajada. Le sue parole suonano come un impegno politico preciso: la sostenibilità non può essere disgiunta dalla responsabilità e dalla reciprocità. Se l’Europa vuole restare all’avanguardia nella tutela degli ecosistemi marini, deve anche garantire condizioni paritarie per tutti gli attori della filiera.
Il rafforzamento delle misure contro la pesca non sostenibile dei paesi terzi rappresenta un’opportunità per consolidare una cultura del mare basata su legalità, trasparenza e cooperazione scientifica. Ma è anche un richiamo implicito a tutti gli operatori europei: la credibilità della sostenibilità passa anche dalla coerenza interna, dalla tracciabilità e dall’investimento in pratiche virtuose lungo tutta la filiera.
L’invito, ora, è a vigilare, agire in rete e costruire una cultura della sostenibilità che sia anche competitiva, non solo etica.
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L’articolo Unione Europea più severa contro la pesca non sostenibile proviene da Pesceinrete.
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