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Durante l’estate in corso i ricci di mare in Giappone sono diventati il simbolo di un settore ittico sotto pressione. Il crollo delle catture nell’Hokkaido, aggravato dal riscaldamento delle acque, ha fatto schizzare i prezzi al dettaglio a livelli senza precedenti.
Sull’isola di Rishiri, famosa per l’uni donburi – ciotola di riso con ricci bafun – i ristoranti offrono 100 grammi di prodotto a 15.000-18.000 yen (92-110 euro), circa il doppio rispetto a pochi anni fa. Secondo la Rishiri Fisheries Cooperative la causa è il dimezzamento delle catture rispetto al 2024.
Il fenomeno si inserisce in un quadro economico già critico. A livello nazionale, la spesa media delle famiglie giapponesi per il cibo ha raggiunto il 30% del budget, il livello più alto degli ultimi 43 anni. La debolezza dello yen ha gonfiato i costi delle importazioni, mentre l’aumento delle temperature marine mette a rischio le specie d’acqua fredda.
Gli scienziati segnalano un incremento medio di 5 °C nelle acque giapponesi negli ultimi anni, con conseguenze dirette: calo drastico di salmoni, calamari e luccioperca, il cui prezzo al chilo è quasi quintuplicato in due decenni. La regione di Tohoku, un tempo centrale per la produzione di salmone, ha perso il suo ruolo a causa dello spostamento verso nord della corrente calda.
Gli effetti sono tangibili anche sull’inflazione. Nel luglio 2025 i prezzi alimentari in Giappone sono saliti del 7,6% su base annua, accelerando rispetto al 7,2% di giugno. I prodotti ittici, sebbene rappresentino meno del 10% del paniere, contribuiscono alla pressione sui consumatori.
Le autorità di Tokyo guardano con preoccupazione a un fenomeno che non è più congiunturale. La Banca del Giappone ha riconosciuto che i prezzi dei prodotti freschi, inclusi pesce e frutti di mare, crescono più velocemente del resto dei beni alimentari, con impatti negativi soprattutto per le famiglie a reddito fisso.
In prospettiva, il governo punta ad aumentare il tasso di autosufficienza alimentare al 69% entro il 2030, rispetto all’attuale 60. Un obiettivo ambizioso, che rischia di scontrarsi con le nuove variabili climatiche. Regolamentazioni più stringenti sui tempi e sulle quantità di pesca potrebbero diventare inevitabili.
Risulta quindi chiaro come inflazione e cambiamento climatico possano convergere nel rendere inaccessibili anche i beni di lusso tradizionali. Per la filiera ittica globale, è un segnale d’allarme: la sostenibilità delle risorse marine e la resilienza economica dei consumatori non sono più temi separati.
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