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La pesca non è solo un’attività economica o una tradizione che ha origine millenaria, è anche una forza ecologica che modella la vita dei mari e degli oceani. Ogni gettata di rete, ogni palangaro, strascico, calato in mare, può alterare gli equilibri di intere popolazioni di pesci. Ma non tutte le specie reagiscono allo stesso modo. La loro vulnerabilità dipende da un insieme di fattori biologici e comportamentali del tipo: dove vivono, come si muovono, quanto crescono e quando si riproducono.
Le abitudini dei pesci e la loro vulnerabilità
Proprio come noi, anche i pesci hanno abitudini, e alcune di queste li rendono più esposti al rischio di cattura. Le specie che amano vivere in gruppo, come il tonno rosso del Mediterraneo, per esempio, diventano prede facili per le grandi flotte di pesca a circuizione, che grazie ai radar riescono a individuare e chiudere interi banchi in poche ore. Al contrario, i pesci solitari o quelli che si rifugiano in ambienti complessi, come scogli o barriere coralline, riescono spesso a sfuggire alle reti.
Anche la velocità di nuoto, le rotte migratorie e la profondità a cui vivono influenzano le loro probabilità di sopravvivenza. Le moderne tecnologie di pesca conoscono bene questi comportamenti e li sfruttano per aumentare le catture, rendendo le specie più prevedibili e, di conseguenza, più vulnerabili.
Alcuni pesci crescono lentamente e si riproducono tardi: è il caso di squali e balene, che impiegano anni per raggiungere la maturità sessuale. Queste specie non riescono a sostenere un forte prelievo, bastano pochi anni di pesca intensiva per far crollare le loro popolazioni, e decenni per permettere loro di riprendersi. Altre specie, come sardine e acciughe, hanno invece una vita più “veloce” crescono rapidamente, si riproducono presto e in gran numero. Questo consente loro di recuperare più facilmente dopo periodi di sfruttamento. In biologia si parla di “strategie di vita”, e conoscerle è fondamentale per capire quanto una specie può sopportare la pesca senza collassare.
Ogni rete che cala in mare non cattura solo pesce, ma tocca un equilibrio. Gestire le risorse ittiche in modo sostenibile significa rispettare le differenze tra le specie, i loro ritmi biologici e i limiti naturali del mare. Ignorare questi equilibri può portare a conseguenze gravi. Intere popolazioni possono scomparire e, con loro, anche la stabilità degli ecosistemi marini da cui dipendiamo.
Mediterraneo: equilibrio tra pesca e sostenibilità
Negli ultimi anni il tema dell’equilibrio tra pesca e biodiversità è tornato al centro del dibattito internazionale. Secondo il rapporto FAO 2024 “The State of World Fisheries and Aquaculture”, nel Mediterraneo e nel Mar Nero soltanto il 35,1% degli stock ittici risulta sfruttato in modo biologicamente sostenibile. Sebbene il dato mostri un lieve miglioramento rispetto al passato, la maggior parte delle specie rimane sovrasfruttata, in particolare i pesci demersali come nasello, triglia e scampo, che continuano a subire un’eccessiva pressione di pesca.
Un ruolo fondamentale nella gestione delle risorse spetta alla General Fisheries Commission for the Mediterranean (GFCM), organo regionale della FAO incaricato di promuovere la cooperazione tra gli Stati costieri. Attraverso l’adozione di piani pluriennali di gestione, il potenziamento delle Aree Marine a Pesca Ristretta (FRA) e l’introduzione di limiti allo sforzo di pesca, la GFCM punta a favorire un modello produttivo che concili tutela ambientale e redditività per le comunità costiere. Le misure della GFCM si integrano con quelle previste dalla Politica Comune della Pesca (CFP) dell’Unione Europea, che mira a garantire la sostenibilità ambientale, economica e sociale dell’intero comparto.
La strada verso un Mediterraneo sostenibile è ancora lunga, ma i dati più recenti mostrano che le politiche di gestione condivisa e il rispetto dei limiti biologici possono produrre risultati concreti. La biodiversità marina non è un tema astratto: è la base stessa della produttività dei nostri mari e del futuro della pesca mediterranea.
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