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Ho trovato davvero interessante il punto di vista di Edwin Ngwafor, nell’intervista pubblicata su SeafoodSource, sulla lavorazione del pesce in Africa e sulle sue fragilità strutturali. La sua analisi va oltre i numeri e mette in luce un nodo geopolitico ed economico: gli accordi di pesca e cooperazione con Cina e Unione europea non si traducono quasi mai in reale sviluppo industriale. Gli impianti restano pochi, la trasformazione avviene altrove e il valore, semplicemente, scivola via.

Dove nasce davvero il valore della filiera

La parte più ricca della catena del valore non è la cattura, ma ciò che accade dopo. Filettatura, surgelazione, confezionamento, marchi, certificazioni, distribuzione: è qui che si genera fino all’80% del valore del prodotto. Se queste fasi restano fuori dal continente, l’Africa continua a fornire materia prima e a importare ricchezza trasformata. Le imprese europee e cinesi preferiscono lavorare vicino ai mercati più forti, dove esistono infrastrutture e normative già consolidate. Nel frattempo, le flotte locali restano marginali e il potenziale occupazionale si disperde.

Accordi generosi, fabbriche vuote

Gli accordi di pesca sono spesso presentati come strumenti di cooperazione e sviluppo. L’intesa tra UE e Guinea-Bissau, ad esempio, prevede 85 milioni di euro in cinque anni. Ma mentre i fondi scorrono, l’export resta fermo per mancanza di conformità sanitaria. Laboratori, catene del freddo e controlli continui sono ancora carenti. Così, mentre si parla di sostenibilità, la lavorazione del pesce in Africa resta lontana dalla scala necessaria per diventare un motore economico. Gli aiuti arrivano, ma non cambiano la struttura del settore.

Standard, credito e governance: i veri colli di bottiglia

Le barriere sanitarie e fitosanitarie, il costo della certificazione e la scarsità di energia stabile rendono la trasformazione un rischio. Le cooperative e le piccole imprese non hanno accesso a credito agevolato per investire in impianti moderni. A questo si aggiunge una governance debole che non riesce a contenere la pesca INN e il sovrasfruttamento delle risorse. In queste condizioni, gli imprenditori locali non possono competere né crescere. Il risultato è un sistema frammentato, dove il pesce parte grezzo e ritorna confezionato con valore moltiplicato.

Una strategia africana per cambiare paradigma

Ngwafor invita i governi africani a fare un salto politico e industriale: elaborare strategie nazionali che colleghino cattura, trasformazione, logistica e promozione delle esportazioni. Non si tratta solo di ricevere fondi, ma di saperli orientare. Porti attrezzati, catene del freddo funzionanti, laboratori accreditati e controlli trasparenti sono la base di una filiera credibile. Una visione come quella adottata da Marocco e Namibia dimostra che industrializzare la pesca è possibile, se la volontà politica segue una logica di sistema.

Perché conviene anche all’Europa

Un’Africa più forte nella trasformazione ittica significa approvvigionamenti più stabili, tracciabilità più solida e mercati meno vulnerabili. Gli operatori europei ne trarrebbero vantaggio in termini di qualità e sostenibilità. Ma questo richiede un cambio di prospettiva: non più solo accesso alle acque, ma co-sviluppo industriale. In fondo, la lavorazione del pesce in Africa non è solo una questione economica, ma una prova di coerenza per chi parla di partnership e sostenibilità.

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L’articolo L’Africa pesca, altri trasformano proviene da Pesceinrete.

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