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Una crescente mole di dati scientifici conferma come il cambiamento climatico e le popolazioni ittiche siano ormai due elementi indissolubilmente legati. Le analisi satellitari e gli studi a lungo termine rivelano una tendenza chiara: le specie equatoriali stanno diminuendo, mentre quelle polari mostrano un’espansione significativa.
La clorofilla, pigmento presente nel fitoplancton che costituisce la base della catena alimentare marina, è monitorata dagli scienziati come indicatore primario della produttività degli oceani. Le immagini satellitari della NASA, raccolte tra il 2003 e il 2022, mostrano un oceano che cambia colore: le acque polari diventano più verdi, segno di maggiore attività biologica, mentre quelle tropicali si impoveriscono. Se questo comporti davvero un incremento o un calo della biomassa di fitoplancton resta un interrogativo, ma l’impatto sulle catene trofiche e quindi sulle risorse ittiche globali appare inevitabile.
Nelle regioni polari si osservano già nuove dinamiche: specie tipiche di habitat meridionali prosperano in mari un tempo inadatti, mentre altre, tradizionalmente settentrionali, iniziano a regredire sotto la pressione dell’aumento termico. Le conseguenze sono tangibili non solo per l’ecosistema, ma anche per le flotte pescherecce, che si trovano a inseguire stock migranti oltre le aree storiche di cattura. In Europa, ad esempio, le quote assegnate decenni fa non riflettono più la distribuzione attuale delle specie, generando tensioni tra Paesi e operatori.
Lo stesso fenomeno si replica nelle acque dolci. Uno studio multicontinentale ha evidenziato un riscaldamento medio dei fiumi pari a 0,21 °C per decennio dal 1958 al 2019. Le popolazioni equatoriali di pesci d’acqua dolce, fondamentali per la sicurezza alimentare di Asia, Africa e Sud America, mostrano un calo significativo, mentre nei bacini fluviali temperati e polari alcune specie vedono un’espansione. Qui il cambiamento climatico e le popolazioni ittiche si intrecciano con le sfide della sicurezza alimentare, mettendo a rischio milioni di persone che dipendono dalla pesca e dall’acquacoltura.
Gli esperti sottolineano che il riscaldamento globale non agisce in modo isolato. Temperature più alte, acidificazione delle acque, riduzione dell’ossigeno disciolto e pressione antropica della pesca concorrono a modellare un futuro incerto. Per alcuni stock, come il salmone della Baia di Bristol, il riscaldamento ha paradossalmente portato a rese record, ma non esistono vincitori universali: la traiettoria è diversa per ogni specie, Paese e comunità costiera.
Cambia la geografia della pesca
La conclusione è netta: il cambiamento climatico e le popolazioni ittiche stanno già modificando la geografia della pesca mondiale. Gli interventi necessari non si limitano all’adattamento della filiera, ma richiedono una riduzione delle emissioni, la tutela delle aree di riproduzione e politiche di gestione più flessibili.
Il quadro che emerge è complesso e in rapida evoluzione. L’industria ittica globale è chiamata a ripensare modelli di gestione e strategie di approvvigionamento, mentre le comunità costiere più vulnerabili rischiano di pagare il prezzo più alto. Il monitoraggio continuo e la cooperazione internazionale saranno determinanti per affrontare questa sfida.
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L’articolo Allarme clima: le specie ittiche migrano e la pesca vacilla proviene da Pesceinrete.
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