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Quando si parla di icone del fast food, i primi nomi che vengono in mente sono hamburger e patatine. Eppure, dal 1962, il Filet-O-Fish di McDonald’s ha conquistato un posto fisso nel menu globale della catena. Nonostante non abbia mai goduto della stessa popolarità dei grandi classici, resta il simbolo di come il pesce possa ritagliarsi uno spazio anche in un contesto dominato dalla carne.

Hannah Warne Latincsics, giornalista di Mashed, ha chiesto a due professionisti della cucina un’opinione su questo panino che divide da decenni. Monique Mickle, Executive Sous Chef del Darling Oyster Bar di Charleston, e Amy Casey, personal chef e food blogger, hanno sottolineato sia i punti di forza che le debolezze di un prodotto rimasto sostanzialmente invariato negli anni.

Amy Casey

Per Casey, il Filet-O-Fish di McDonald’s rappresenta la quintessenza della coerenza: stesso sapore in ogni parte del mondo, cottura uniforme e un equilibrio di gusto “non troppo invadente”. Mickle, pur riconoscendo la bontà del celebre panino, rimarca però il limite strutturale del prodotto: la qualità del pesce non può competere con quella di un filetto fresco. Entrambe concordano sull’importanza della salsa tartara, considerata un elemento capace di alzare l’asticella del sapore, pur se penalizzata dalla temperatura tiepida al momento del consumo.

Monique Mickle

Un dettaglio che sorprende è il ruolo del pane. Secondo Mickle, il soffice bun cotto a vapore ha un valore aggiunto al punto da volerlo mantenere anche in una versione “rivisitata” del panino con pesce fresco. È proprio questo contrasto tra la consistenza del pane e la croccantezza del filetto fritto a definire l’identità del Filet-O-Fish di McDonald’s.

Pollock d’Alaska

C’è però un aspetto che resta critico: la dimensione del filetto. Con circa 85 grammi dopo la frittura, non riesce a reggere il confronto con le porzioni dei fish sandwich serviti nei ristoranti. Anche la scelta del pollock d’Alaska, un pesce bianco delicato e poco costoso, riflette la logica industriale della catena. Se per alcuni consumatori la neutralità del gusto è un pregio, per altri rappresenta un limite rispetto a specie più pregiate come merluzzo, mahi mahi o persino pesce spada e rombi.

Questa analisi porta a una riflessione più ampia sul ruolo del pesce nel fast food. Il Filet-O-Fish di McDonald’s non è mai stato concepito per esaltare la materia prima, ma per rispondere a esigenze di mercato specifiche: innanzitutto il consumo durante la Quaresima e in contesti culturali in cui il venerdì “senza carne” richiedeva un’alternativa. La standardizzazione globale ha fatto il resto, trasformandolo in un prodotto riconoscibile ovunque ma inevitabilmente distante dal concetto di qualità che il settore ittico cerca di promuovere.

In un’epoca in cui i consumatori mostrano crescente attenzione alla provenienza e alla sostenibilità delle materie prime, il Filet-O-Fish di McDonald’s solleva una domanda di fondo: fino a che punto il pesce può essere ridotto a commodity senza perdere il suo valore culturale ed economico?

Il Filet-O-Fish resta un caso emblematico: da un lato, la sua coerenza operativa rappresenta un modello di efficienza per la ristorazione veloce; dall’altro, il confronto con la qualità e la varietà del settore ittico evidenzia i suoi limiti. Un equilibrio delicato che invita la filiera a interrogarsi sul rapporto tra standardizzazione, valore del prodotto e aspettative del consumatore.

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L’articolo Filet-O-Fish McDonald’s, l’eterna sfida tra fast food e cultura ittica proviene da Pesceinrete.

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