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Nel dibattito sulla protezione degli oceani, le aree interdette alla pesca a strascico sono diventate un simbolo politico potente. Facili da comunicare, visivamente d’impatto e apparentemente risolutive, sono spesso presentate come la risposta definitiva ai problemi della pesca e della biodiversità marina. Ma per il ricercatore americano Max Mossler, della Sustainable Fisheries UW, questa narrativa rischia di semplificare eccessivamente una questione complessa e di allontanare l’attenzione dalle misure che davvero funzionano.

Mossler avverte che la chiusura permanente di porzioni di mare alla pesca a strascico non garantisce di per sé benefici ecologici duraturi. Senza un disegno scientifico preciso e un monitoraggio costante, il rischio è quello di spostare la pressione di pesca in altre zone, con possibili effetti peggiorativi sugli ecosistemi. L’effetto “spill-over”, spesso citato come prova dell’efficacia di queste aree, si è dimostrato concreto solo in contesti limitati e ben studiati.

Il ricercatore invita a non cadere nella trappola di politiche facili da annunciare ma deboli nell’impatto reale. La conservazione marina, sottolinea, richiede una combinazione di strumenti già disponibili e collaudati: chiusure temporanee strategiche, miglioramenti tecnologici negli attrezzi, raccolta dati continua, sistemi di supervisione efficaci e quote di cattura basate su stock valutati scientificamente.

Mossler ricorda inoltre che una pesca oceanica ben regolamentata può essere non solo sostenibile, ma anche più efficiente dal punto di vista delle emissioni di carbonio rispetto a molte filiere alimentari terrestri. In un mondo con una popolazione in crescita, rinunciare a questo potenziale significherebbe limitare una fonte di proteine sane e a basso impatto climatico.

L’uso delle aree marine protette come unico strumento è, per Mossler, una scorciatoia che privilegia il consenso politico alla reale efficacia. La pesca a strascico, quando condotta su fondali idonei come sabbia o ghiaia e con protocolli di protezione dell’habitat, può rientrare a pieno titolo in un modello sostenibile. Non è l’attrezzo in sé a essere il problema, ma la mancanza di regole e controlli.

Il vero nemico della salute degli oceani non è la pesca in sé, bensì il cambiamento climatico e l’inquinamento. Concentrare la battaglia ambientalista solo sulle aree interdette alla pesca a strascico rischia di trasformare uno strumento parziale in una bandiera politica, lasciando irrisolte le minacce più gravi e complesse.

La conservazione marina richiede meno slogan e più scienza. Le aree interdette alla pesca a strascico possono essere utili, ma solo come parte di un piano complessivo basato su dati, controlli e responsabilità condivisa.

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L’articolo Nella tutela marina, le aree interdette alla pesca a strascico non bastano proviene da Pesceinrete.

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