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Dopo il comunicato diffuso nei giorni scorsi, in cui ha denunciato come “l’Unione europea ancora una volta penalizzi la pesca italiana con il prolungamento del fermo temporaneo nel Tirreno”, il presidente nazionale di UNCI AgroAlimentare, Gennaro Scognamiglio, approfondisce con Pesceinrete — in questa intervista esclusiva — le conseguenze economiche e politiche del provvedimento europeo.
Nel comunicato, Scognamiglio aveva evidenziato come solo la mediazione del Governo italiano abbia evitato che il blocco si protraesse fino al nuovo anno, consentendo la ripresa dell’attività nel mese di dicembre. Una decisione che, pur limitando i danni, lascia aperto il tema del rapporto tra Bruxelles e il comparto della pesca mediterranea, sempre più esposto a politiche uniformi e penalizzanti.
Parallelamente, il 30 ottobre scorso, UNCI AgroAlimentare ha inviato un documento ufficiale al Ministero dell’Agricoltura, alle Commissioni parlamentari competenti e alle Regioni costiere, chiedendo l’attivazione di misure di compensazione socio-economica a valere sul FEAMPA.
La proposta, legata all’attuazione del Regolamento UE 2025/219, riguarda oltre 700 unità da pesca con palangaro e reti da posta, distribuite in otto regioni italiane, e stima un fabbisogno complessivo di circa 5 milioni di euro. L’obiettivo è garantire sostegno al reddito e continuità di impresa, superando la logica emergenziale e avviando una risposta strutturale che integri sostenibilità, innovazione e coesione sociale.
In questo quadro, Scognamiglio delinea la sua visione per il futuro della pesca italiana.
Presidente, il prolungamento del fermo pesca nel Tirreno rappresenta un nuovo colpo per la flotta italiana. Qual è la reale portata economica e occupazionale di questa misura e quanto può incidere sull’equilibrio già precario delle imprese cooperative del comparto?
Il prolungamento del fermo, anche se ridotto grazie alla mediazione, resta un colpo durissimo per la nostra flotta, in particolare per le imprese cooperative. Sono oltre duemila i pescatori coinvolti e le perdite dirette si stimano in decine di milioni di euro, senza contare gli effetti sull’intera filiera: lavorazione, commercializzazione, servizi portuali e logistica.
Le cooperative e gli armatori, già alle prese con margini operativi ridotti, si trovano ora a gestire gravi tensioni di liquidità, difficoltà nel coprire i costi fissi e nel mantenere gli investimenti.
L’impatto occupazionale è pesante: migliaia di marittimi e operatori a terra sono senza stipendio, con periodi di disoccupazione forzata che minacciano la tenuta delle comunità costiere. Il rischio maggiore è la fuga dei giovani, scoraggiati da un contesto instabile e da una mancanza di prospettive.
Questo genera un effetto domino sull’intero sistema: meno prodotto fresco nei mercati, ritardi nei pagamenti e crescente dipendenza da indennizzi pubblici.
Lei parla di una deriva punitiva delle politiche comunitarie nei confronti della pesca italiana. È una mancanza di conoscenza o una precisa scelta ideologica che trascura la sostenibilità sociale?
Non è solo mancanza di conoscenza – che pure esiste – ma una scelta ideologica che guarda al Mediterraneo con schemi pensati per altre aree europee.
L’Unione europea continua ad applicare modelli di conservazione astratti, spesso calibrati sull’Atlantico, che non tengono conto delle peculiarità di un mare semichiuso, multiespecie e fortemente artigianale come il nostro.
Questo approccio ignora le buone pratiche già adottate in Italia e finisce per colpire le marinerie più fragili. La sostenibilità, invece, deve essere ambientale, economica e sociale insieme.
Oggi si tende a individuare nella pesca la causa principale del degrado marino, trascurando fattori ben più rilevanti: inquinamento terrestre, sversamenti di rifiuti e cambiamento climatico.
Non si tutela l’ambiente demolendo il tessuto sociale che lo presidia. La pesca italiana, per tradizione e necessità, è custode del mare e merita di essere riconosciuta come tale.
La mediazione del governo ha ridotto la durata del blocco e consentirà di tornare in mare a dicembre. È un segnale politico di rinnovata attenzione o un episodio isolato?
È un segnale politico importante, frutto della determinazione del ministro Lollobrigida, del sottosegretario La Pietra e della dirigenza del MASAF.
Questa mediazione dimostra che una trattativa fondata su competenze tecniche e dati scientifici può incidere sulle decisioni di Bruxelles. Ma non basta: serve una cabina di regia permanente tra Roma e Bruxelles, che riunisca rappresentanti istituzionali, scientifici e del settore, con il compito di definire una linea italiana unitaria.
Solo così potremo passare dalla logica della penalità a quella della coprogrammazione, presentando soluzioni alternative basate su selettività degli attrezzi, innovazione tecnologica, piani di gestione locali e valorizzazione della ricerca nazionale.
Il settore non chiede deroghe, ma regole equilibrate, che riconoscano le differenze territoriali e garantiscano continuità di lavoro e di reddito.
Lei ha più volte indicato le vere cause del degrado marino: inquinamento, sversamenti e cambiamento climatico. In che direzione dovrebbero cambiare le politiche ambientali europee?
Le principali cause del degrado non sono nella pesca, ma nell’inquinamento di origine terrestre, negli sversamenti chimici e plastici e negli effetti del cambiamento climatico.
Per affrontarle serve una Gestione Ecosistemica Integrata, che valuti l’impatto cumulativo di tutti i fattori e non si limiti a misurare lo sforzo di pesca.
Le priorità sono tre: investire in depurazione efficiente e gestione dei rifiuti costieri e portuali, promuovere una ricerca scientifica inclusiva e multidisciplinare, e applicare con rigore il principio “chi inquina paga”, coinvolgendo industria, agricoltura e turismo.
La pesca non può continuare a essere l’unico settore a sostenere il prezzo della conservazione ambientale. Serve equilibrio tra tutela del mare e diritto al lavoro.
Quali direttrici strategiche indica per restituire competitività alle imprese ittiche italiane e dignità sociale ai lavoratori del mare?
Le direttrici sono chiare e devono essere sostenute da scelte politiche coerenti.
Innovazione e transizione 4.0: destinare in modo mirato i fondi del FEAMPA per ammodernare attrezzature, migliorare la selettività e sostenere la transizione energetica delle imbarcazioni.
Valorizzazione della filiera: puntare su tracciabilità, certificazioni e marchi di qualità, aumentando il valore aggiunto del prodotto italiano. Le De.Co., se ben coordinate con le politiche locali, possono diventare strumenti efficaci di identità e promozione territoriale.
Formazione e ricambio generazionale: rendere il mestiere del pescatore attrattivo, sicuro e stabile, con percorsi professionali aggiornati e un sistema di welfare e previdenza adeguato.
Riconoscimento sociale: attribuire al pescatore il ruolo di custode del mare, valorizzando il contributo che già offre nella raccolta dei rifiuti marini e nella tutela dell’ambiente.
La pesca non è un problema da contenere, ma una risorsa da governare con intelligenza. Come diceva Parmenide, “Ciò che è, è.”
Il mare è eterno e generativo, ma l’essenza della pesca non è solo prelievo: è equilibrio tra necessità e limite, tra nutrimento e rispetto. Negare la pesca significa negare la vita stessa delle comunità costiere. La vera sostenibilità non è l’assenza dell’uomo, ma la sapienza del suo abitare il mare.

L’articolo Scognamiglio: “L’Europa punisce chi vive di mare. Serve una cabina di regia stabile tra Roma e Bruxelles” proviene da Pesceinrete.
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