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La 20ª Conferenza delle Parti della CITES è entrata oggi nella fase più delicata. Le delegazioni riunite a Ginevra – dove i lavori proseguiranno fino al 5 dicembre – stanno passando al vaglio oltre cento proposte che potrebbero ridefinire il perimetro del commercio internazionale delle specie acquatiche. È un passaggio cruciale, perché arriva in un momento in cui il settore ittico globale sta già affrontando un anno complesso tra aggiustamenti climatici, tensioni sui costi operativi e nuove richieste normative. In questo clima di incertezza, la voce dell’International Coalition of Fisheries Associations (ICFA) è diventata una delle più ascoltate nelle ultime ore.
L’organizzazione, che rappresenta le principali associazioni di pescatori di diversi continenti, ha chiesto ai Paesi membri di valutare con estrema cautela alcune delle misure sul tavolo, in particolare quelle riguardanti anguille, cetrioli di mare e squali del genere Mustelus. In un comunicato diffuso recentemente, l’ICFA ha parlato di “proposte con potenziali effetti collaterali profondi, capaci di interferire con attività di pesca ben gestite e con catene del valore già stabilizzate”.
Il nodo centrale resta l’utilizzo crescente del criterio di “somiglianza”, che consente alla CITES di includere in Appendice II specie non minacciate solo perché visivamente simili ad altre a rischio. Una logica precauzionale che, secondo l’ICFA, finisce per diventare arbitraria: accanto a casi giustificati ce ne sarebbero altri, in aumento, che producono distorsioni di mercato e complicano inutilmente il lavoro di autorità, operatori e comunità costiere.
Il capitolo anguille è forse il più discusso di questa CoP20. Il tentativo di includere 17 nuove specie nell’Appendice II viene sostenuto da gruppi che vogliono contrastare il contrabbando dell’anguilla europea, un fenomeno che nel 2025 è tornato a emergere con forza in diversi porti europei e asiatici. Ma l’ICFA ribadisce che Anguilla japonica e Anguilla rostrata mostrano popolazioni robuste, gestite tramite programmi di monitoraggio che negli ultimi anni hanno fatto registrare una buona resilienza biologica. Inserire queste specie in una lista restrittiva – ricordano i pescatori nordamericani – significherebbe penalizzare un comparto che nel 2024 ha generato nel solo Maine quasi 20 milioni di dollari e che nel 2025 si è mantenuto su livelli simili, confermando la sua centralità nella piccola pesca costiera.
Le preoccupazioni non riguardano solo l’impatto economico, ma anche la logica della governance internazionale: la Coalizione contesta il rischio che il peso delle inefficienze europee nella lotta al traffico illecito venga scaricato su regioni del mondo che gestiscono correttamente le loro popolazioni di anguilla. È una critica che circola molto anche nei corridoi della delegazione Asia-Pacifico, dove diversi Paesi temono che un elenco generalizzato possa soffocare la crescita di piccole imprese familiari.
Scenario simile per i cetrioli di mare. Le discussioni degli ultimi due giorni hanno evidenziato come la proposta di includere alcune specie del genere Actinopyga non si basi su una convergenza scientifica solida. Il gruppo esperti della FAO, nel parere tecnico aggiornato al 2025, ha ribadito che le popolazioni di Actinopyga spp. non soddisfano i criteri dell’Appendice II. Le aree rurali del Sud-est asiatico osservano questi sviluppi con apprensione: per molte comunità, questa risorsa rappresenta l’unica entrata regolare dell’anno. Le delegazioni dei piccoli Stati insulari hanno ricordato che qualunque nuova procedura CITES richiederebbe infrastrutture amministrative che non possono permettersi, con il rischio di alimentare – invece di ridurre – la pesca illegale.
La discussione sugli squali Mustelus è altrettanto tesa. Le ONG ambientaliste sostengono che l’inserimento in lista estenderebbe finalmente un controllo uniforme sul commercio globale di pinne e carni di squalo, garantendo una piattaforma internazionale coerente. Ma per l’ICFA, una misura indistinta ignora differenze biologiche enormi tra Atlantico, Mediterraneo e Oceano Indiano. L’esempio più citato è quello del Mustelus asterias, ritenuto abbondante secondo il parere ICES 2025, in netto contrasto con altre specie dello stesso genere, rare o scarsamente presenti nelle catture europee. Anche in questo caso, il criterio della “somiglianza” rischia di schiacciare la complessità biologica dietro un’unica etichetta legislativa.
Dietro i toni tecnici si intravede una controversia politica più ampia. L’ICFA ricorda il memorandum siglato nel 2006 tra CITES e FAO, in cui la Convenzione riconosceva all’agenzia ONU la leadership scientifica sulle decisioni riguardanti risorse acquatiche. Oggi, secondo il presidente Ivan Lopez Van der Veen, quel principio sta perdendo centralità. In un dibattito seguito da tutta la filiera ittica internazionale, Van der Veen ha dichiarato che “le Parti devono riaffermare la necessità di decisioni fondate su basi scientifiche solide, soprattutto quando queste decisioni incidono sulle economie costiere e sulla credibilità della governance internazionale”.
Con le giornate decisive della CoP20 ormai avviate, si fa sempre più evidente che le decisioni prese entro il 5 dicembre non rimarranno confinate nei registri della CITES. Incideranno sull’equilibrio tra conservazione e attività produttive, sulla stabilità dei mercati e sulla capacità delle comunità costiere di continuare a stare a galla in un anno che, per molte di loro, è già stato tra i più impegnativi dell’ultimo decennio. Per l’intera filiera ittica globale, l’esito di questa conferenza non sarà un semplice aggiornamento normativo, ma una fotografia del modo in cui il mondo immagina la pesca sostenibile del futuro.
L’articolo CITES, la filiera ittica avverte: “Rischiamo il caos globale” proviene da Pesceinrete.
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