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Le meduse a filo stanno emergendo come uno dei fenomeni più monitorati dagli istituti di ricerca del Nord Atlantico. Non perché il genere Apolemia sia una scoperta recente, ma perché negli ultimi tre inverni le sue proliferazioni hanno assunto una dimensione e una frequenza mai osservate prima nelle acque norvegesi, causando morti improvvise in milioni di salmoni e costringendo il settore a investire in sistemi di protezione e monitoraggio. È un caso che, seppur distante, merita di essere compreso anche da chi opera nel Mediterraneo.

Si tratta di organismi appartenenti al genere Apolemia, sifonofori coloniali che si presentano come lunghe strutture filamentose, simili a corde trasparenti. Non sono meduse nel senso comune del termine, ma colonie di zooidi che funzionano come un unico organismo. La loro caratteristica più insidiosa è la discrezione: spesso non si avvistano per intero, ma appaiono in mare come segmenti gelatinosi sottili, spinti dalle correnti.

I ricercatori norvegesi dell’Institute of Marine Research hanno confermato che le fioriture osservate negli ultimi anni non sono episodi isolati. Le meduse seguono una traiettoria relativamente stabile: passano a ovest dell’Irlanda, transitano tra Isole Faroe e Shetland e raggiungono la Norvegia trasportate dalla corrente del Nord Atlantico. Questo percorso sta spingendo gli scienziati a coinvolgere attivamente pescatori e operatori marittimi del Regno Unito e dell’area faroese affinché segnalino avvistamenti, anche incerti, perché la tempestività è l’unico vero strumento di prevenzione.

Il problema principale è il danno fisico che questi organismi causano ai pesci. Le colonie, o frammenti di esse, possono entrare nelle gabbie degli allevamenti e provocare lesioni a pelle e branchie attraverso le nematocisti, portando rapidamente a infezioni secondarie e mortalità elevate. È quanto accaduto in Norvegia, dove negli ultimi tre inverni si sono registrate perdite economiche considerevoli per l’intero comparto.

Per fronteggiare il fenomeno, nel Paese scandinavo è stato avviato il progetto JellySafe, finanziato dal Norwegian Seafood Research Fund. L’obiettivo è duplice: sviluppare un sistema di allerta precoce e testare misure di protezione come barriere fisiche, sistemi elettrificati, tende a bolle e gonne schermanti intorno alle gabbie. Soluzioni che, tuttavia, diventano utili solo se attivate prima dell’arrivo delle colonie.

Per l’Italia e per il Mediterraneo non esiste, al momento, una minaccia diretta riconducibile a Apolemia. Tuttavia, l’esperienza del Nord Atlantico offre un’indicazione precisa: la gestione dell’acquacoltura, soprattutto in un contesto climatico e oceanografico in rapida evoluzione, richiede attenzione costante anche verso fenomeni lontani. Le correnti influenzano la distribuzione delle specie pelagiche, e ciò che oggi riguarda la Norvegia può diventare domani un elemento di studio anche per il nostro mare.

La vicenda delle “meduse a filo” dimostra quanto sia importante la collaborazione tra ricerca e operatori del mare. Le segnalazioni dei pescatori, le immagini raccolte e le osservazioni sul campo sono diventate una componente cruciale per anticipare la presenza di queste colonie. È un modello di vigilanza condivisa che potrebbe rivelarsi prezioso anche nel contesto mediterraneo, dove l’acquacoltura continua a crescere e la capacità di prevenzione rappresenta un valore strategico.

Restare informati, osservare e contribuire alla raccolta dati: sono questi i tre pilastri che permettono oggi alla Norvegia di limitare i danni e che domani potrebbero aiutare anche altri Paesi. Perché il mare è un sistema connesso, e le dinamiche che iniziano in un punto possono arrivare molto più lontano di quanto immaginiamo.

L’articolo Danni agli allevamenti norvegesi: le colonie filiformi di Apolemia sotto osservazione proviene da Pesceinrete.

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