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Nella riunione dei ministri europei dell’Agricoltura e della Pesca dello scorso 17 novembre, l’intervento del Ministro Francesco Lollobrigida ha interrotto per un momento il flusso ordinario dei negoziati. Non un semplice riepilogo tecnico, ma un richiamo diretto alle conseguenze reali delle politiche europee sul Mediterraneo e, soprattutto, su chi in mare ci vive ogni giorno. È stato lui stesso a usare un’espressione piuttosto cruda: l’operazione può anche dirsi riuscita, ma il paziente — cioè la pesca italiana — è morto.

Il quadro che ha portato a Bruxelles non lascia grandi margini di interpretazione. Le marinerie continuano a ridursi, i giovani non entrano più in banchina e molti stock, nonostante anni di restrizioni, non mostrano i miglioramenti che ci si aspettava. Il nodo però, per l’Italia, non è soltanto biologico. È economico, sociale, competitivo. I prodotti che arrivano da fuori Europa, spesso privi degli stessi obblighi e controlli, sono ormai in grado di spiazzare il mercato interno. Il pesce importato, venduto a prezzi inferiori perché prodotto con regole meno rigide, mette fuori mercato le nostre imprese. Il risultato è evidente: prezzi più bassi nelle aste e sempre più armatori che preferiscono rottamare la barca piuttosto che continuare a perdere.

Per questo, davanti ai colleghi europei, Lollobrigida ha chiesto di tirare il freno almeno per il 2026. Una moratoria sulle nuove misure nel Mediterraneo, giudicate ormai insostenibili per uno sforzo di pesca che, soprattutto per lo strascico, è arrivato a livelli da cui è difficile mantenere un’impresa in piedi. È una linea rossa, come l’ha definita lui stesso, che l’Italia porterà fino all’ultimo tavolo di negoziazione.

Intanto la Commissione ha presentato due regolamenti che accompagneranno le discussioni dei prossimi mesi: il primo riguarda le possibilità di pesca per Atlantico e Mare del Nord dal 2026 al 2028, il secondo le nuove misure per il Mediterraneo e il Mar Nero nel 2026. Sono esercizi necessari, basati sui pareri del CIEM e sulla tabella di marcia dei piani pluriennali dell’UE. Ma il tema, nelle parole del ministro, è capire se le scadenze fissate a Bruxelles tengano davvero conto delle condizioni locali o se rischino, al contrario, di svuotare intere marinerie prima ancora di aver riportato gli stock su un percorso sostenibile.

La questione non riguarda solo l’Italia. Molti ministri hanno riconosciuto che il Mediterraneo vive una fragilità unica, difficile da confrontare con Atlantico o Mare del Nord. Il danese Jacob Jensen, che ha presieduto la sessione, ha parlato della necessità di un accordo politico equilibrato da raggiungere entro dicembre. Un equilibrio che, questa volta, dovrà tenere insieme tutto: la biologia, certo, ma anche la sopravvivenza delle comunità costiere che di mare vivono da generazioni.

Lollobrigida ha insistito su un punto che è passato forse in silenzio nelle ultime discussioni europee: la Politica Comune della Pesca non è nata solo per preservare gli stock. Aveva — e deve continuare ad avere — tre gambe. La tutela delle risorse, la difesa del lavoro marittimo e il sostegno all’economia del settore. Se una sola di queste gambe regge tutto il peso, il tavolo inevitabilmente si inclina.

La vera partita si giocherà a dicembre, quando si decideranno i nuovi TAC e le misure finali per il 2026. E sarà lì che si capirà se il messaggio lanciato dall’Italia avrà trovato ascolto o se il Mediterraneo dovrà affrontare un ulteriore anno di restrizioni senza aver ricevuto il necessario supporto per reggerle.

L’articolo Lollobrigida al Consiglio Agrifish: il Mediterraneo ha bisogno di una tregua proviene da Pesceinrete.

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