Pesca e acquacoltura sostenibile per fermare il degrado del suolo

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Il ruolo dell’oceano nella lotta contro la degradazione del suolo emerge oggi come una delle leve più efficaci per contrastare l’impatto ambientale dei sistemi alimentari e ridurre la pressione sulle risorse terrestri. Secondo un recente studio pubblicato su Nature e condotto da un gruppo internazionale di 21 scienziati, massimizzare la produzione sostenibile di pesce e ridurre lo spreco alimentare del 75% potrebbe evitare entro il 2050 l’utilizzo di una superficie di terra più grande dell’intero continente africano. È un dato che sposta radicalmente la prospettiva sul ruolo della filiera ittica in rapporto ai modelli di sviluppo globale.

L’analisi parte da un dato evidente: la sola produzione alimentare è responsabile di circa il 20% delle emissioni mondiali di gas serra e rappresenta uno dei principali vettori di degradazione dei suoli. In questo contesto, il settore della carne bovina è tra i più impattanti in termini di uso del suolo, consumo di risorse e produzione di emissioni. Al contrario, i prodotti ittici – in particolare quelli provenienti da pesca o acquacoltura sostenibili – offrono un profilo molto più efficiente dal punto di vista ambientale, oltre a garantire un elevato apporto proteico.

Lo studio evidenzia che sostituire il 70% della carne rossa prodotta in modo non sostenibile con pesce pescato in natura o allevato responsabilmente consentirebbe di liberare 17,1 milioni di chilometri quadrati di territorio e ridurre in modo importante le emissioni associate. Anche l’integrazione di prodotti a base di alghe, in sostituzione di una parte delle verdure coltivate su terra, apporterebbe benefici aggiuntivi in termini di risparmio di suolo e capacità di assorbimento di carbonio.

Gli autori non si limitano a elencare i vantaggi della filiera marina, ma propongono un percorso chiaro: integrare i sistemi alimentari terrestri e marini all’interno delle politiche globali sulla biodiversità, la lotta alla desertificazione e il cambiamento climatico. Ciò significa includere concretamente pesca sostenibile e acquacoltura responsabile tra le strategie per la sicurezza alimentare e l’adattamento ai cambiamenti ambientali.

La stessa filiera ittica – dalla produzione alla trasformazione fino alla distribuzione – è chiamata a posizionarsi come parte attiva di questa transizione. Gli operatori del settore possono contribuire non solo con pratiche sostenibili e certificazioni, ma anche promuovendo un consumo più consapevole e responsabile, in particolare nei Paesi ad alto consumo di carne. Non si tratta di sostituire indiscriminatamente, ma di orientare la dieta globale verso un equilibrio che riduca l’impatto sui suoli, valorizzando il potenziale rigenerativo del mare.

Parallelamente, lo studio sottolinea l’importanza di ridurre lo spreco alimentare, migliorare lo stoccaggio e sostenere i circuiti locali. Il risparmio di territorio generato da una riduzione del 75% degli sprechi alimentari ammonterebbe a oltre 13 milioni di chilometri quadrati, confermando che l’efficienza del sistema deve andare di pari passo con la diversificazione delle fonti proteiche.

Per la filiera ittica, questa prospettiva rappresenta un’opportunità strategica di posizionamento, non solo come settore produttivo, ma come fattore di equilibrio all’interno delle politiche climatiche e ambientali globali. L’integrazione dei sistemi alimentari marini e terrestri può diventare un driver di innovazione e valore, a condizione che venga governata con logiche di responsabilità, trasparenza e cooperazione.

In definitiva, il mare non è solo un ecosistema da proteggere: è una risorsa attiva per la rigenerazione della terra. Sfruttarne in modo sostenibile il potenziale vuol dire contribuire in modo decisivo al raggiungimento dell’obiettivo di ripristinare il 50% dei suoli degradati entro il 2050, avanzando al contempo verso una più efficace sicurezza alimentare globale.

Il settore ittico può giocare un ruolo strategico nel contrasto alla degradazione dei suoli, grazie alla capacità di offrire proteine ad alto valore nutrizionale con un impatto ambientale sensibilmente inferiore rispetto alle produzioni terrestri più intensive. Integrare i sistemi alimentari marini e terrestri rappresenta un passaggio cruciale per liberare territorio, ridurre emissioni e sostenere gli obiettivi globali su clima, biodiversità e desertificazione.

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La formazione è leva strategica per l’export ittico

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Nel vivace mercato globale dove i margini competitivi si misurano sempre più sulla capacità di gestire normative e piattaforme digitali complesse, la formazione nel settore ittico per l’export non rappresenta più un aspetto accessorio ma una vera leva strategica. In particolare, quando il mercato di destinazione è altamente regolamentato – come nel caso dell’Unione Europea – l’adeguamento ai requisiti sanitari e l’interoperabilità con i sistemi ufficiali richiedono operatori qualificati, aggiornati e perfettamente consapevoli delle procedure necessarie per garantire la conformità dei prodotti.

Il Perù

Il Perù lo ha compreso in modo pragmatico. Il Ministero della Produzione peruviano (Produce), in collaborazione con l’Autorità nazionale per la salute e la sicurezza nella pesca e nell’acquacoltura (Sanipes), ha avviato un piano di formazione destinato agli operatori della pesca e dell’acquacoltura che intendono esportare verso l’UE. Solo nella regione di Piura sono stati coinvolti 80 professionisti, formati sull’utilizzo del sistema Traces NT per la gestione della certificazione sanitaria e sulle procedure per il rilascio dei certificati TUPA 38 e TUPA 39, indispensabili per la movimentazione commerciale dei prodotti ittici.

L’investimento nelle competenze tecniche consente alle imprese di evitare errori formali, ridurre i tempi di validazione delle pratiche doganali e posizionarsi come fornitori credibili agli occhi delle autorità europee, che da tempo richiedono standard stringenti in termini di tracciabilità, sicurezza alimentare e autenticità dei certificati. Le sessioni formative promosse da Sanipes includono anche aspetti operativi poco visibili ma fondamentali, come l’autenticazione a due fattori per l’accesso sicuro alla piattaforma e la gestione di eventuali restituzioni o riesportazioni.

È un approccio sistemico, esteso ad altre regioni del Paese con il coinvolgimento di circa 50 operatori a evento e ulteriori sessioni già pianificate per i prossimi mesi. La stessa autorità sanitaria stima per il 2025 l’emissione di circa 1.200 certificati TUPA 38 e oltre 300 TUPA 39, a beneficio delle imprese esportatrici e della loro capacità di consolidare relazioni commerciali con l’Europa.

L’Europa

Questo approccio non è isolato. Anche alcuni Paesi europei che esportano fuori dal proprio perimetro – dalla Norvegia, che ha costruito un sistema di formazione continua per preparare le imprese ittiche ad affrontare la complessità normativa dei mercati asiatici (Giappone, Corea del Sud, Singapore), alla Spagna, che in collaborazione con l’agenzia per il commercio estero ha attivato moduli formativi specifici sulle procedure di esportazione verso Stati Uniti e America Latina – dimostrano che la formazione nel settore ittico per l’export è ormai considerata un investimento strategico di politica industriale. Non si tratta solo di trasmettere informazioni tecniche, ma di accompagnare concretamente le aziende nella gestione dei certificati sanitari, nell’uso dei sistemi digitali di tracciabilità e nell’interpretazione delle normative locali, evitando blocchi alla dogana, rigetti della merce o contestazioni sulle certificazioni. In questo modo, la formazione diventa una leva per aumentare la reputazione del Paese e facilitare l’ingresso in mercati ad alto valore aggiunto.

L’Italia?

Di fronte a questi esempi, una domanda sorge spontanea: l’Italia sta davvero investendo abbastanza nella formazione degli operatori ittici per affrontare mercati complessi e distanti, oppure continua a muoversi con approcci poco coordinati, rischiando di perdere terreno rispetto ai concorrenti internazionali?

Al momento, le iniziative formative presenti nel nostro Paese tendono a concentrarsi sugli aspetti tecnico-produttivi e sulla conformità ai requisiti europei, mentre risultano ancora sporadiche – e spesso affidate alla buona volontà delle singole imprese – le attività orientate alla preparazione delle aziende per l’export verso mercati extra-UE.

In assenza di un percorso strutturato e condiviso, le imprese italiane rischiano di trovarsi impreparate davanti a requisiti sanitari, documentali o digitali sempre più articolati, con tempi di accesso ai mercati più lunghi e un posizionamento meno competitivo. Non è soltanto un tema tecnico: è una vera scelta di politica industriale. Investire in formazione significa trasformare la conoscenza in valore, sostenere l’intera filiera sui mercati globali e preservare il ruolo internazionale dell’Italia nel settore ittico.

Il caso Perù e l’esperienza di Paesi europei come Norvegia e Spagna dimostrano che solo con un investimento sistematico in formazione nel settore ittico per l’export è possibile competere in mercati regolamentati e lontani. Ed è su questo punto che l’Italia è chiamata oggi a interrogarsi.

Se siete a conoscenza di corsi o iniziative di formazione nel settore ittico in Italia dedicate all’export, segnalateli alla redazione di Pesceinrete scrivendo a redazione@pesceinrete.com: contribuire alla diffusione delle buone pratiche significa rafforzare l’intera filiera.

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Rafforzare il mercato interno è la vera sfida per le filiere ittiche

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In un settore, come quello del pesce, sempre più esposto alla volatilità internazionale, rafforzare il mercato interno delle filiere ittiche rappresenta una priorità strategica per garantire stabilità, continuità produttiva e capacità di investimento. L’export resta imprescindibile – e in molti casi trainante – ma la dipendenza quasi totale dalla domanda estera espone le imprese a rischi che non dipendono dalla competitività del prodotto, bensì da fattori geopolitici, macroeconomici e logistici che sfuggono al controllo degli operatori.

Il caso del Vietnam è emblematico

Il caso del Vietnam è emblematico. Nonostante un valore di esportazioni superiore a 1,1 miliardi di dollari nei primi sette mesi del 2025, sostenuto da crescite rilevanti in mercati chiave come Brasile, Malesia, Thailandia e Stati Uniti, il consumo interno di pangasio in Vietnam non supera ancora il 7% del totale prodotto. Lo ha evidenziato con grande chiarezza la VASEP, osservando che il modello industriale sviluppato negli ultimi anni si è basato quasi esclusivamente sulle esigenze dei clienti esteri.

Sul mercato domestico, infatti, l’offerta è composta principalmente da referenze basiche (pesce intero o filettato senza lavorazioni aggiuntive), con scarso investimento in packaging, branding e innovazione di prodotto. A questo si aggiunge un divario di prezzo significativo: il pangasio venduto in Vietnam ha valori inferiori del 30-40% rispetto a quello esportato, rendendo poco conveniente lo sviluppo di una distribuzione strutturata a livello nazionale.

Al contrario, in Paesi dove il mercato interno svolge un ruolo centrale – come Thailandia o India – il pesce d’acqua dolce è stato integrato nei programmi alimentari scolastici, ospedalieri e istituzionali, diventando parte integrante delle abitudini alimentari quotidiane. Ciò ha garantito alle filiere una maggiore capacità di assorbire le fluttuazioni internazionali e di pianificare investimenti industriali di lungo periodo sulla base di una domanda più stabile.

La situazione sta lentamente cambiando anche in Vietnam: alcune aziende hanno iniziato a sviluppare prodotti trasformati a base di pangasio (fish cake, fish ball, noodles ittici), rivolti a giovani, studenti e lavoratori. È un primo passo verso la costruzione di un mercato interno moderno e in linea con le nuove tendenze di consumo.

Cosa succede in Italia

Ed è proprio questo il passaggio che potrebbe riguardare da vicino anche l’Italia. In numerose filiere ittiche nazionali, gran parte della produzione è destinata all’export o al mercato fresco della grande distribuzione, mentre sono ancora poco sviluppate le linee trasformate basate su specie locali – che potrebbero rispondere alle esigenze di praticità, benessere e sostenibilità espresse dai consumatori italiani.

Integrare il pesce nazionale nei menù scolastici o sanitari, migliorare il packaging, ampliare l’offerta di prodotti ready-to-eat e lavorare sulla percezione culturale del prodotto non significa solo aumentare i volumi di vendita: significa creare una base di domanda domestica in grado di sostenere gli investimenti industriali e ridurre la dipendenza da mercati esteri sempre più competitivi.

Il Vietnam dimostra che l’export può spingere la crescita, ma la stabilità a lungo termine si costruisce rafforzando il mercato interno. Per le filiere ittiche italiane, sviluppare prodotti trasformati a base di specie locali e promuoverne il consumo attraverso politiche mirate può diventare una leva strategica fondamentale.

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Quando il pesce diventa identità: Termoli e il valore strategico delle sagre marinare

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Anche quest’anno, la Sagra del pesce di Termoli torna ad animare il piazzale del Porto con un appuntamento che va ben oltre il semplice intrattenimento. Prevista per il 23 agosto a partire dalle ore 18:00, l’iniziativa rappresenta uno spartiacque tra evento popolare e leva strategica per la promozione delle marinerie locali. Dietro le degustazioni, gli stand gastronomici e le dimostrazioni culinarie, emerge infatti un messaggio centrale: la filiera ittica, quando si apre al pubblico attraverso forme di coinvolgimento diretto, rafforza il proprio valore identitario e aumenta la consapevolezza collettiva sul ruolo economico e culturale del settore.

Il successo della sagra del pesce di Termoli è frutto di un equilibrio preciso. Da un lato la tradizione marinara, che offre credibilità e autenticità alla manifestazione; dall’altro un’attività di storytelling territoriale concreta, capace di trasformare un’occasione festiva in un’occasione di sensibilizzazione sul valore del prodotto locale. La cittadina costiera, storicamente legata alla pesca, utilizza la sagra non solo per promuovere una gastronomia di qualità, ma per ribadire la necessità di tutelare le produzioni ittiche e valorizzarne la filiera.

Durante la sagra del pesce di Termoli, turisti e residenti partecipano a un vero e proprio percorso immersivo nei sapori della costa molisana: piatti preparati sul momento, racconti delle ricette tradizionali e momenti di confronto con i pescatori contribuiscono a promuovere un consumo basato sulla conoscenza e sulla valorizzazione delle specie locali. È questo il punto di forza dell’evento – la capacità di ricostruire, attraverso la convivialità, un legame tra chi produce e chi consuma.

In un momento storico in cui la comunicazione della filiera ittica rischia talvolta di relegarsi ai soli canali istituzionali, la sagra del pesce di Termoli mostra l’efficacia di uno strumento apparentemente semplice, ma altamente performante in termini di impatto. L’apertura verso l’esterno, la presenza massiccia del pubblico e la narrazione costante delle pratiche produttive aiutano a tradurre la complessità del settore in un linguaggio immediato e accessibile.

Il settore ittico – compreso quello trasformato – può guardare alle sagre come a una piattaforma di marketing territoriale con ricadute reali per le attività locali. Non si tratta di spettacolarizzare il prodotto, ma di creare un contesto in cui le abitudini di consumo siano orientate alla qualità e all’origine, riconoscendo nel pesce locale un elemento centrale per la sostenibilità, l’economia e il patrimonio culturale delle comunità costiere.

La Sagra del pesce di Termoli dimostra come le manifestazioni popolari possano trasformarsi in strumenti di valorizzazione strutturata del settore ittico, favorendo il legame tra produzione, territorio e consumatore grazie a un percorso culturale e gastronomico condiviso.

Stiamo raccogliendo segnalazioni da tutta Italia per realizzare un censimento aggiornato delle sagre del pesce, da pubblicare prossimamente su Pesceinrete. Se organizzi o conosci una sagra significativa per il tuo territorio, scrivici a redazione@pesceinrete.com indicando: nome, località, periodo, caratteristiche distintive e contatti dell’organizzazione.

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Sicily Fishing Ban Risks Shrimp Stock and Competitiveness

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It is becoming increasingly clear that the Sicily fishing ban, in force from 7 August to 5 September in GSA sub-areas 12, 13, 14, 15 and 16, is generating far more severe economic consequences than the intended objective of protecting red shrimp (Aristaeomorpha foliacea) and deep-water rose shrimp (Aristeus antennatus) stocks.
The measure – based on the recommendations of the General Fisheries Commission for the Mediterranean (GFCM) and on the fishing effort regime established by the Common Fisheries Policy (CFP) – affects all of the island’s main fishing communities, from Mazara del Vallo to the Siracusa area, and applies exclusively to EU fleets.

Meanwhile, North African vessels, mostly Tunisian, continue to operate in the same areas without any temporary fishing closure, increasing fishing effort precisely during the period in which Sicilian fleets are inactive.
The absence of a Euro-Mediterranean reciprocity agreement is creating a clear competitive imbalance and undermining the overall sustainability of the shrimp resource, effectively cancelling out the long-term effects of the fishing ban.

The situation is further aggravated by a regional measure that requires trawlers operating in GSA16 to observe an additional one-month stoppage in September (except for vessels authorised for oceanic fishing).
According to industry associations, the cumulative impact of these restrictions could result in a production drop of over 30% in 2025, in an already challenging scenario marked by high energy costs, numerous weather-related inactivity days, and continuing difficulties in recruiting qualified maritime workers.

In view of this, Michele Catanzaro, PD group leader at the Sicilian Regional Assembly (ARS), has drawn attention to the consequences of the current regulatory asymmetry, raising the matter with MEP Giuseppe Lupo, who has committed to bringing it before the European Parliament’s Fisheries Committee.
The goal is to secure a European initiative introducing a shared fishing ban for all countries involved in deep-sea shrimp fisheries in the Strait of Sicily.

The real critical point is that the Sicily fishing ban – designed as a sustainability measure – is only effective within a multilateral framework.
Without a common rule also binding non-EU fleets, the risk is that EU fishing effort is reduced while other fleets increase theirs, accelerating resource depletion and creating a long-term competitiveness gap.

The Sicilian fishing ban, respected by EU fleets in line with international recommendations, becomes ineffective in the absence of a reciprocity mechanism with North African countries.
A European initiative is urgently needed to introduce shared rules and ensure a balance between stock protection and the economic sustainability of fisheries enterprises.

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