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La crescente attenzione scientifica verso le connessioni tra plastica e resistenza antimicrobica ha finalmente assunto un contorno nitido. A testimoniarlo è un recente e autorevole studio pubblicato su Journal of Hazardous Materials, a firma di Emily M. Stevenson e colleghi delle università di Exeter e Plymouth Marine Laboratory. Il lavoro adotta una prospettiva sistemica e multidisciplinare, tracciando un nesso documentato tra produzione, uso e smaltimento della plastica e la diffusione della resistenza agli antimicrobici (AMR), una delle più gravi minacce sanitarie globali.
Il problema non riguarda solo la sanità pubblica, ma coinvolge anche gli ecosistemi acquatici e, indirettamente, la filiera ittica. Gli ambienti marini, in particolare, si stanno trasformando in serbatoi di batteri resistenti, veicolati da rifiuti plastici ormai ubiqui. Microplastiche, biofilm, metalli pesanti e additivi plastici si combinano in un cocktail potenzialmente letale per l’equilibrio ecologico e per la sicurezza alimentare.
Lo studio esamina ogni fase del ciclo di vita della plastica, dimostrando che il rischio legato alla plastica e alla resistenza antimicrobica non si esaurisce con il rifiuto in mare. Dall’estrazione del petrolio con l’uso di biocidi, fino al riciclo inefficace e contaminato, passando per gli imballaggi a contatto con alimenti e i dispositivi medici, ogni passaggio rappresenta un potenziale motore di selezione genetica per microrganismi resistenti.
In ambiente marino, i rifiuti plastici fungono da veri e propri vettori biologici: le superfici plastiche ospitano comunità microbiche specifiche, i cosiddetti plastisfere, che non solo facilitano la trasmissione orizzontale di geni resistenti, ma anche il trasporto di patogeni su scala globale. È ormai evidente che plastica e resistenza antimicrobica si alimentano a vicenda, in una spirale che coinvolge le coste, gli organismi acquatici e le catene alimentari.
Nel contesto ittico, le implicazioni sono tangibili. Le specie marine possono ingerire microplastiche colonizzate da patogeni resistenti, con conseguenze non ancora pienamente quantificate sulla salute degli animali e sulla qualità del pescato. Inoltre, la gestione dei rifiuti plastici nei porti, nei mercati ittici e nelle aree di lavorazione richiede ora un’attenzione diversa, non più limitata all’impatto visivo o ecologico, ma anche alla potenziale diffusione di microrganismi resistenti.
Il richiamo degli autori dello studio è chiaro: occorre superare le analisi settoriali e affrontare in maniera integrata la sfida posta da plastica e resistenza antimicrobica. Servono politiche condivise tra sanità, ambiente e industria; servono nuovi criteri per la produzione e il riciclo della plastica; servono controlli lungo tutta la catena, inclusa quella alimentare.
Per il settore ittico, ciò si traduce in una responsabilità crescente. Non si tratta più solo di garantire tracciabilità, sostenibilità e freschezza del prodotto, ma anche di contribuire a un ecosistema marino meno contaminato da vettori di resistenza batterica. È una questione di sicurezza, ma anche di reputazione, in un mercato sempre più attento alla salute e alla trasparenza.
Lo studio firmato da Emily M. Stevenson delinea un quadro preoccupante ma imprescindibile: la plastica è un cofattore della crisi antimicrobica globale. Il mare, e con esso il comparto ittico, è parte integrante di questa equazione. Capire il legame tra plastica e resistenza antimicrobica è il primo passo per agire in modo efficace.
Chi opera nella filiera ittica ha oggi l’opportunità di contribuire a un cambiamento sistemico. Informarsi, prevenire, agire: sono le parole chiave per una Blue Economy davvero sostenibile.
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L’articolo Plastica e resistenza antimicrobica: un’emergenza che coinvolge anche il mare proviene da Pesceinrete.
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