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Le conclusioni del Consiglio UE sulla resilienza climatica non restano sulla carta: trovano una conferma netta nei numeri e nei casi reali. Un recente report di Planet Tracker, insieme alle evidenze scientifiche richiamate dall’IPCC, mostra come il cambiamento climatico stia già diventando un rischio finanziario concreto per pesca, acquacoltura e trasformazione.
Il cambiamento climatico non è più soltanto una questione ambientale. Sta diventando, sempre più chiaramente, un problema economico e finanziario per l’industria ittica globale. A dirlo non sono opinioni, ma dati, casi di studio e proiezioni basate su scenari reali.
Secondo Planet Tracker, in uno scenario ad alte emissioni il cambiamento climatico potrebbe costare al settore ittico mondiale fino a 15 miliardi di dollari entro il 2050. Una stima definita dagli stessi autori come prudenziale, costruita su dati IPCC e che rappresenta il limite inferiore di un impatto potenzialmente molto più ampio.
Le condizioni meteorologiche estreme stanno già causando la perdita di giornate di pesca, danni alle attrezzature, interruzioni delle attività e migrazioni forzate delle specie. A questi effetti immediati si sommano processi più lenti ma strutturali: riscaldamento delle acque, deossigenazione, acidificazione degli oceani e innalzamento del livello del mare. Fenomeni che non agiscono isolatamente, ma si rafforzano a vicenda.
Il rapporto evidenzia come i cambiamenti nella distribuzione delle specie stiano incidendo anche sui prezzi dei prodotti ittici. La riduzione delle catture e la revisione delle quote spingono le aziende ad assorbire costi crescenti, con effetti a cascata su trasformazione, distribuzione e consumo. Anche in scenari a basse emissioni, oltre la metà degli stock transzonali potrebbe spostarsi dalle zone economiche esclusive all’alto mare entro il 2050.
Secondo Gorjan Nikolik, analista senior di Rabobank, l’impatto reale del cambiamento climatico potrebbe essere persino sottostimato. Per un settore che genera oltre 500 miliardi di dollari di valore annuo, una perdita stimata di 15 miliardi appare contenuta. Altre analisi, come quelle dell’Università di Cambridge, parlano di perdite annuali comprese tra 17 e 41 miliardi di dollari.
I casi concreti citati nel report mostrano come il danno sia già in corso. Il crollo degli stock di merluzzo e platessa in acque sempre più calde, la crisi del Mar Baltico legata alla deossigenazione, l’aumento dei costi operativi per la produzione di ostriche nel Pacifico nord-occidentale a causa dell’acidificazione sono esempi di valore economico già perso.
Anche l’acquacoltura è coinvolta. Il riscaldamento delle acque aumenta lo stress dei pesci, favorisce la diffusione di parassiti e malattie e rende più frequenti eventi di mortalità di massa. Fenomeni climatici come El Niño stanno già incidendo sulla produzione di farina e olio di pesce in aree chiave come il Perù, con effetti diretti sui costi dei mangimi e sull’intera catena del valore.
Il report pone una domanda cruciale: dal punto di vista finanziario, conviene davvero mantenere lo status quo o investire oggi nell’adattamento? La risposta, secondo Planet Tracker, è netta. La resilienza economica di lungo periodo non risiede nel rinviare le decisioni, ma nello sviluppare capacità di adattamento ora.
Il cambiamento climatico sta trasformando rischi fisici in rischi finanziari. Porti, impianti, concessioni e modelli di business costruiti su equilibri ambientali ormai superati rischiano di perdere valore. Ignorare questi segnali non significa evitare i costi, ma spostarli più avanti, amplificandoli.
Per il settore ittico, il messaggio è diretto: l’adattamento non è una scelta opzionale. È una condizione necessaria per la tenuta economica della filiera nei prossimi decenni.
L’articolo Il conto del clima arriva anche sull’ittico: non adattarsi costerà miliardi proviene da Pesceinrete.
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