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Pesca nel Mediterraneo, il settore all’attacco dell’Unione Europea

Pesca nel Mediterraneo, il settore all’attacco dell’Unione Europea

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La proposta UE per la pesca nel Mediterraneo per il 2026 della Commissione europea riaccende la tensione tra Bruxelles e il settore. A prendere posizione sono le parti sociali europee della pesca, vale a dire Europêche, che riunisce le associazioni di armatori e imprese di pesca, la Federazione europea dei lavoratori dei trasporti (ETF), che rappresenta i sindacati dei pescatori, e Cogeca, che dà voce alle cooperative del comparto. In un documento congiunto queste organizzazioni parlano di “profonda preoccupazione” e di “ferma opposizione” a un pacchetto di misure giudicato tra i più severi di sempre, con il rischio concreto di spingere fuori dal mercato un settore che da anni opera al limite della sostenibilità economica.

Nel mirino ci sono soprattutto le nuove riduzioni dello sforzo di pesca. Secondo le stime diffuse dalle stesse parti sociali, la proposta della Commissione comporterebbe tagli molto consistenti ai giorni di attività per le flotte a strascico di Francia, Spagna e Italia, con un livello di riferimento estremamente basso in assenza di misure compensative. A queste riduzioni si aggiungono nuove restrizioni per i pescherecci con palangari diretti al nasello, limiti alle catture di gamberi in acque profonde e ulteriori calendari di pesca restrittivi in aree considerate chiave, come il Mediterraneo occidentale, la Catalogna e lo Stretto di Sicilia.

Le organizzazioni ricordano che questo ulteriore giro di vite arriva dopo anni di sacrifici. La flotta mediterranea ha già ridotto lo sforzo di pesca, haaccettato piani pluriennali, chiusure spaziali e temporali, investimenti in attrezzi più selettivi. Una traiettoria che è stata riconosciuta anche dal rapporto FAO–GFCM “State of the Mediterranean and Black Sea Fisheries (2025)”, dove si parla di miglioramenti significativi e di segnali di aumento delle popolazioni ittiche per diversi stock. Proprio per questo, dal punto di vista del settore, la nuova proposta viene percepita come sproporzionata e non coerente con i progressi registrati sul piano biologico.

Il documento congiunto delle parti sociali pone alla Commissione alcune domande dirette. La prima riguarda l’esistenza di una reale valutazione socioeconomica degli impatti: quali effetti avranno queste misure su imprese, lavoratori e comunità costiere? In che modo l’Unione europea intende conciliare una ulteriore riduzione dei giorni di pesca con gli obiettivi, più volte ribaditi, di competitività, sovranità alimentare e difesa della produzione di proteine fresche e locali? E ancora: perché, sapendo che lo scenario si sarebbe ripetuto per il secondo anno consecutivo, la Commissione non ha proposto per tempo modifiche strutturali al piano, evitando di esporre nuovamente armatori e pescatori alla stessa crisi?

Un altro punto sensibile riguarda il sistema delle compensazioni. La proposta lascia la possibilità di recuperare parte delle giornate perse attraverso ulteriori misure di conservazione – come l’uso di attrezzi più selettivi o nuove chiusure mirate – ma le parti sociali avvertono che questo meccanismo non è realisticamente applicabile in tutte le regioni. In alcuni contesti le soluzioni tecniche non sono ancora pienamente disponibili, in altri i costi di adeguamento sono troppo elevati per piccole imprese familiari che già operano sui margini. La domanda, in sostanza, è cosa accadrà alle flotte che, di fatto, non potranno sfruttare queste compensazioni.

Sul terreno, le conseguenze si vedono già. I pescatori parlano di una riduzione di prospettive che equivale a un invito ad abbandonare il mestiere, accelerando un processo di desertificazione sociale in molte zone costiere. I giovani faticano a vedere nella pesca un futuro credibile, le famiglie rimettono in discussione la continuità delle imprese, interi territori rischiano di perdere quella base economica che ha garantito per decenni reddito, occupazione, servizi e una cultura legata al mare.

Le parti sociali contestano anche il fatto che la proposta, pur richiamando la gestione basata sulla scienza, non tenga conto in modo realmente “olistico” degli altri fattori che incidono sugli stock ittici. Vengono citati, tra gli altri, l’aumento della temperatura delle acque, l’acidificazione, l’impatto di altre attività umane su habitat ed ecosistemi. Nella percezione del settore, la responsabilità del riequilibrio viene scaricata quasi esclusivamente sulla pesca professionale, mentre il contributo di questi ulteriori fattori resta sullo sfondo.

Da qui la richiesta di un cambio di rotta immediato, rivolta alla Commissione e ai ministri della pesca dell’UE che tra oggi e domani negozieranno il pacchetto definitivo (11 e 12 dicembre). Le parti sociali chiedono misure che proteggano le risorse marine, ma allo stesso tempo salvaguardino il diritto delle comunità costiere a mantenere i propri mezzi di sussistenza. Invocano un quadro regolatorio che garantisca maggiore prevedibilità, una reale fattibilità a livello regionale e un trattamento equo per tutte le flotte. In termini concreti, indicano la necessità di un livello di giornate di pesca annue compatibile con la redditività delle imprese, chiedono l’eliminazione dei limiti di cattura per il gambero rosso di acque profonde e sollecitano un dialogo più strutturato e continuo con i pescatori sul territorio.

Il messaggio finale è netto: il settore sostiene di aver fatto la propria parte, modernizzando le flotte, adottando metodi più selettivi e rispettando riduzioni e divieti sempre più stringenti. Ora, sostengono Europêche, ETF e Cogeca, è il momento che l’Unione europea si faccia carico della dimensione sociale delle sue scelte, proteggendo le donne e gli uomini che garantiscono ogni giorno l’approvvigionamento di prodotti ittici e preservando le comunità che vivono di mare. Per la pesca mediterranea, quello lanciato alla vigilia del Consiglio di dicembre viene definito senza mezzi termini come un SOS.

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Nel 2025 l’ASC riscrive le regole dell’acquacoltura responsabile

Nel 2025 l’ASC riscrive le regole dell’acquacoltura responsabile

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Quando la scorsa primavera a Barcellona è stato presentato il nuovo Farm Standard dell’Aquaculture Stewardship Council (ASC), non è sembrato il solito aggiornamento di un disciplinare. Per chi lavora nell’acquacoltura è apparso subito come un cambio di impostazione: meno documenti separati, più sistema. Il 2025 si chiude così come un anno in cui l’ASC ha concentrato in un unico quadro standard, mangimi, diritti dei lavoratori, benessere animale e strumenti digitali, provando a tenere insieme tutte le dimensioni della produzione di pesce allevato per i mercati internazionali.

Un unico standard per un settore frammentato

Per anni la certificazione ASC è cresciuta sommando standard di specie: salmone, gambero, pesce gatto e via via gli altri. Funzionava, ma generava un mosaico complesso.

Il nuovo Farm Standard interviene proprio qui: unifica requisiti ambientali, sociali e di benessere animale in una struttura unica, applicabile a specie diverse. Per ottenere o mantenere la certificazione, un allevamento deve mostrare dati verificati su utilizzo dell’acqua, impatti sugli habitat, gestione dei medicinali e delle emissioni, insieme a condizioni di lavoro, rapporto con le comunità locali, salute e benessere degli animali.

Nel 2025 l’ASC ha affiancato produttori e auditor con corsi mirati, materiale operativo e simulazioni di audit in Asia, America Latina, Africa ed Europa. L’obiettivo è stato pratico: ridurre il rischio che la transizione si traduca in blocchi o ritardi e costruire un vocabolario comune tra chi produce, chi controlla e chi compra.

Benessere animale e diritti umani al centro

Il nuovo impianto rende più evidente qualcosa che fino a pochi anni fa restava spesso ai margini: il benessere animale.

Densità di allevamento, mortalità, prevenzione delle malattie, trasporto, metodi di stordimento e abbattimento entrano tra i parametri centrali di valutazione. Per molte aziende significa rivedere protocolli interni, registrazione dei dati e gestione operativa, con l’effetto collaterale – non secondario – di misurare meglio perdite, efficienza e rischi sanitari.

In parallelo, l’ASC ha rafforzato il capitolo diritti umani. Nel 2025 sono stati sviluppati strumenti per affrontare salario dignitoso, partecipazione dei lavoratori, impatto sugli insediamenti locali e sui popoli indigeni nelle aree dove l’acquacoltura è presente in modo significativo.

Il modulo sulla Catena di Custodia, che regola ciò che succede dopo l’uscita del prodotto dall’allevamento, è stato avviato a revisione proprio con un focus sui diritti umani. Le proposte saranno discusse pubblicamente nel 2026. Il segnale al mercato è semplice: sapere da dove viene il pesce non basta più, serve capire in quali condizioni è stato prodotto e lavorato.

Mangimi: l’obbligo di coerenza lungo la filiera

La seconda leva su cui l’ASC è intervenuto nel 2025 riguarda i mangimi.

Il Programma di Certificazione dei Mangimi ha esteso la copertura a temi come deforestazione, conversione dei suoli, pressione sugli stock marini usati come materia prima, tracciabilità e prevenzione del lavoro forzato nelle filiere degli ingredienti.

Il passaggio più netto è scattato il 31 ottobre: da quella data gli allevamenti certificati ASC sono tenuti a utilizzare esclusivamente mangimi provenienti da stabilimenti anch’essi certificati ASC.

In pratica, l’organizzazione ha collegato in modo diretto la conformità dell’allevamento alla conformità dei suoi fornitori di feed. Alla fine del 2025 il programma conta decine di impianti certificati in 29 paesi, segno di un adeguamento rapido da parte dei principali produttori di mangimi per l’acquacoltura.

Espansione di specie e programmi di miglioramento

Il 2025 è stato anche un anno di estensione del perimetro.

L’inclusione del merluzzo atlantico nello standard combinato con il salmone e il lavoro in corso su diverse specie di pesce gatto indicano la volontà di allineare la certificazione alla reale composizione del mercato, che non si esaurisce nelle poche specie su cui si concentra l’attenzione mediatica.

Per i produttori che non sono ancora in grado di soddisfare i requisiti completi, resta strategico il programma Improver: venti progetti attivi in sei paesi accompagnano allevamenti e aree produttive in percorsi graduali di miglioramento, con obiettivi intermedi e supporto agli enti locali incaricati di attuare gli interventi.

È una scelta pragmatica: chi non è pronto alla certificazione non viene escluso dal discorso, ma inserito in un percorso misurabile.

Accordi sul campo: Corea, Ecuador, Ghana

Una parte importante del lavoro dell’ASC nel 2025 è passata attraverso accordi con istituzioni e imprese in diversi contesti.

In Corea del Sud è stato firmato un protocollo d’intesa con l’Istituto nazionale di scienze della pesca, con l’obiettivo di far convergere ricerca pubblica e requisiti della certificazione. In Ecuador, l’ASC ha collaborato con un grande marchio della trasformazione e un produttore locale per un progetto di ripristino delle mangrovie collegato alla produzione di gambero certificato.

In Ghana, la cooperazione con la Camera di Commercio dell’Acquacoltura ha portato alla definizione di un Codice di Buone Pratiche nazionale, pensato per rendere più facilmente verificabili le condizioni di produzione e facilitare l’accesso a mercati che richiedono standard riconosciuti.

Sul fronte della domanda, il 2025 ha visto campagne con retailer e ristorazione in Nord America, iniziative in Europa per invitare i consumatori a controllare il marchio in etichetta e una Settimana del Pesce Sostenibile in Giappone costruita con partner locali. Premi dedicati al seafood responsabile in diversi paesi hanno contribuito a rendere il logo ASC più visibile fuori dagli addetti ai lavori.

Il ruolo dell’Italia e dell’Europa meridionale

In Europa meridionale, e in Italia in particolare, il tema tocca un tessuto produttivo e culturale dove il consumo di pesce è parte della quotidianità.

Nel 2025, l’ASC ha consolidato la presenza nel Sud Europa attraverso accordi con la distribuzione moderna e la ristorazione organizzata. Spigola, trota e salmone certificati ASC sono comparsi con maggiore continuità sugli scaffali delle grandi insegne, spesso accompagnati da materiale informativo dedicato.

Per i produttori italiani di acquacoltura marino-costiera e per l’industria di trasformazione, la certificazione non è più solo un plus di immagine: diventa un requisito competitivo per mantenere l’accesso ai mercati esteri e rispondere alle richieste di buyer che chiedono dati, non solo dichiarazioni.

La comunicazione specializzata gioca qui un ruolo di cerniera: raccontare in modo chiaro cosa significa aderire agli standard ASC e come cambia la gestione in azienda aiuta allevatori, trasformatori, distribuzione e consumatori a muoversi all’interno di uno stesso quadro di riferimento.

Tracciabilità digitale e contatto diretto con gli allevamenti

Accanto agli standard, il 2025 ha segnato un passo avanti anche sul piano degli strumenti.

Il progetto di tracciabilità digitale TraceASC è stato presentato nei principali appuntamenti dedicati al comparto del gambero come esempio di come un sistema informatico possa ridurre carichi burocratici e migliorare la qualità dei dati lungo la filiera.

Il lancio del Programme Centre – un portale che organizza standard, linee guida e documenti interpretativi – e dell’Online Farm Mapping Tool, che migliora la qualità e la leggibilità delle informazioni geografiche sugli allevamenti, ha reso più accessibili regole e requisiti per chi deve affrontare un audit o aggiornare le proprie procedure interne.

Nonostante la spinta digitale, il contatto diretto con il campo è rimasto decisivo. Nel 2025 i team ASC hanno preso parte a decine di fiere e conferenze, intervenendo come relatori e organizzando Discovery Tour in Norvegia e Scozia. Qui buyer, distributori e altri stakeholder hanno potuto visitare allevamenti certificati, vedere come vengono monitorati i parametri ambientali, come si gestiscono i cicli di produzione e quali dati vengono registrati.

Dopo l’anno di svolta

Alla fine del 2025, l’ASC esce con un profilo più definito: non solo ente che rilascia certificazioni, ma piattaforma che collega standard, formazione, strumenti digitali, dialogo con i governi e lavoro con i grandi compratori.

Resta aperta una domanda chiave: quanto velocemente il settore sceglierà di allinearsi a questa impostazione? La risposta dipenderà dalle decisioni di produttori, mangimifici, trasformatori, retailer e ristorazione, e dalla disponibilità a investire in dati e processi, non solo in comunicazione.

Dal canto suo, l’ASC rivendica nel 2025 progressi concreti e un obiettivo semplice da enunciare, meno da raggiungere: fare in modo che il pesce allevato in modo responsabile diventi la scelta normale, non l’eccezione. I prossimi anni diranno se questo impianto sarà stato davvero il punto di svolta o solo il primo passo di un percorso ancora lungo.

 

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Italian seafood distribution chain of custody

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Anyone walking into a seafood distribution warehouse at dawn might think nothing has changed in twenty years: pallets crossing paths, labels fluttering, the shift supervisor’s voice cutting through the air like a call. And yet, if you look more closely, something really has changed. You can see it in the way operators check a batch, in the almost obsessive care with which they write down a code or measure a temperature. It’s as if the product today were asking for a different kind of attention. Deeper.

The truth is that the chain of custody is no longer a technical detail buried at the end of the paperwork. It has become a pillar of the market. Buyers want to see mapped-out paths, recorded handovers, consistent information. And not out of distrust, but because the demand for transparency has exploded: it comes from consumers, from retail banners, from the most attentive foodservice, and it has now reached all the way into the warehouses, where every gesture seems to weigh a little more than before.

Italian distribution has found itself at the centre of this transformation. Many companies, driven by export markets and in particular by the Northern European retail chains, have realised that it is no longer enough to “do things properly”: you have to be able to prove it. And so, without big announcements, they have moved towards international standards capable of giving shape and method to this new way of working. Among these, several operators have chosen the Aquaculture Stewardship Council (ASC) scheme, especially for the chain of custody component, which lays down clear rules on batch separation, documentation, audits and consistency of information along the product’s journey.

What’s interesting is that this change is not coming from the top, but from the bottom. From an operator who takes one minute longer to check a label, from a quality manager who rewrites a procedure because “this isn’t clear enough,” from an importer who decides to digitalise movements because the risk of confusion between batches is too high. These are small, everyday gestures, but over time they redefine an entire company culture.

Anyone who has already gone through a chain of custody audit knows this well. It’s not just about showing registers: you have to tell a story. Explain why that fish passed through that point, in that exact order, and not somewhere else. Prove that every piece of information, from the very first document to the printing of the final label, has followed a logic that is understandable and verifiable. And often, during these checks, blind spots emerge that nobody had ever noticed before. It is in those moments, a little tense and a little revealing, that you understand how traceability has become a skill, not just an obligation.

The benefits don’t come all at once, but they do come. Smoother audits. Fewer disputes. More stable business relationships, because showing coherence — real, documented coherence — builds a kind of trust that is hard to obtain in any other way. Some companies tell how the simple fact of being able to reconstruct a product’s movement in a few minutes has changed the way they are perceived by buyers. “Now we know we can ask you anything and you have the answer,” they have been told.

Of course, it’s not a path without obstacles. There are costs, and SMEs cannot always face them lightly. The procedures require discipline and, for many teams, completely new habits. But if there is one element shared by those who have decided to take this road, it is the awareness that the market will not go backwards. Rigorous chains of custody will no longer be a competitive advantage: they will become a standard.

In the end, working with traceability in this way means something simple but demanding: taking responsibility for the entire journey of the product, not just the part you physically handle. It means looking at a batch and knowing that it is not just a stock unit, but a fragment of a story that starts far away and has to arrive intact all the way to the shelf.

In a sector where trust has always carried enormous weight, the chain of custody has become the most solid — and perhaps also the most honest — way to build it. And Italian distribution, with all its complexities, is learning to tell this story with a level of precision that until recently nobody would have imagined necessary.

For more insights on the future of Italian fisheries and the blue economy, follow ongoing coverage and analysis on Pesceinrete.

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La Cucina Italiana è Patrimonio dell’Umanità

La Cucina Italiana è Patrimonio dell’Umanità

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La Cucina Italiana è Patrimonio dell’Umanità. La decisione del Comitato intergovernativo UNESCO, riunito a Nuova Delhi ieri, 10 dicembre 2025, porta la tradizione culinaria italiana nella Lista del Patrimonio Culturale Immateriale e diventa subito un fatto politico, economico e identitario. A rivendicarlo è il Ministro dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste, Francesco Lollobrigida, che nel giorno del via libera parla di vittoria per l’intero Paese.

“La Cucina Italiana è Patrimonio dell’Umanità. Oggi l’Italia ha vinto ed è una festa che appartiene a tutti perché parla delle nostre radici, della nostra creatività e della nostra capacità di trasformare la tradizione in valore universale”.

Lollobrigida lega il riconoscimento alla dimensione profonda della cultura nazionale: non solo un omaggio al gusto, ma il sigillo su un patrimonio di gesti, saperi, relazioni. È una chiave che torna anche nella seconda parte della sua dichiarazione:

“Questo riconoscimento celebra la forza della nostra cultura che è identità nazionale, orgoglio e visione. La Cucina Italiana è il racconto di tutti noi, di un popolo che ha custodito i propri saperi e li ha trasformati in eccellenza, generazione dopo generazione”.

Il Ministro insiste su un aspetto: la candidatura non è il risultato di un’operazione calata dall’alto, ma la fotografia di una comunità allargata che tiene insieme famiglie, agricoltori, produttori, ristoratori.

“È la festa delle famiglie che tramandano sapori antichi, degli agricoltori che custodiscono la terra, dei produttori che lavorano con passione, dei ristoratori che portano nel mondo il valore autentico dell’Italia. A loro e a chi ha lavorato con dedizione a questa candidatura va il mio più profondo ringraziamento”.

Il passaggio UNESCO, però, non si esaurisce nella celebrazione. Nella lettura di Lollobrigida c’è anche un piano strategico preciso, che riguarda la difesa del Made in Italy e la competitività delle filiere:

“Questo riconoscimento è motivo di orgoglio ma anche di consapevolezza dell’ulteriore valorizzazione di cui godranno i nostri prodotti, i nostri territori, le nostre filiere. Sarà anche uno strumento in più per contrastare chi cerca di approfittare del valore che tutto il mondo riconosce al Made in Italy e rappresenterà nuove opportunità per creare posti di lavoro, ricchezza sui territori e proseguire nel solco di questa tradizione che l’Unesco ha riconosciuto come patrimonio dell’Umanità”.

Dietro le parole del Ministro, c’è l’architettura stessa del Patrimonio Culturale Immateriale UNESCO: non collezioni di oggetti, ma l’insieme di pratiche, rappresentazioni, espressioni, conoscenze e abilità che una comunità riconosce come proprie. È un patrimonio vivo, che si trasmette di generazione in generazione, si adatta, si trasforma. Nel caso italiano, questo si traduce in mercati e cucine domestiche, feste popolari e ristoranti, paesaggi agricoli e marini, dialetti e ricettari, in un equilibrio continuo fra memoria e contemporaneità.

L’iter che porta alla decisione di Nuova Delhi inizia il 23 marzo 2023, quando il Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste e il Ministero della Cultura annunciano la candidatura della Cucina Italiana a Patrimonio Immateriale dell’Umanità. Il dossier non sceglie un piatto bandiera, ma un modello culturale: un modo di intendere il cibo fondato su esperienza comunitaria, scelta consapevole delle materie prime, convivialità del pasto, trasmissione dei saperi, rispetto delle stagioni e dei territori.

In questa chiave nasce la definizione di cucina italiana come “cucina degli affetti”: il luogo in cui si intrecciano memoria, cura, relazioni, identità. Le ricette non sono semplici istruzioni tecniche, ma storie di famiglie e comunità, specchio del legame tra paesaggi naturali e vita quotidiana, tra chi produce e chi consuma.

La candidatura si regge anche sull’impegno di tre soggetti che, nel tempo, hanno costruito una memoria organizzata della cucina italiana. L’Accademia Italiana di Cucina, fondata nel 1953, ha lavorato per decenni alla documentazione e allo studio delle tradizioni gastronomiche. La Fondazione Casa Artusi, nata nel 2007, ha rimesso al centro la cucina domestica raccontata da Pellegrino Artusi, facendone un laboratorio contemporaneo. La rivista “La Cucina Italiana”, in edicola dal 1929, ha attraversato quasi un secolo di trasformazioni del gusto, delle tecniche, degli stili di vita.

Dal punto di vista comunicativo, il percorso si apre simbolicamente il 1° luglio 2023 con il lancio della candidatura sul veliero scuola Amerigo Vespucci, in partenza per il Tour Mondiale Vespucci e il Villaggio Italia. La nave diventa ambasciatrice itinerante della cucina nazionale, con eventi e racconti in diversi porti del mondo.

Il 4 agosto 2023, al Parco Archeologico di Pompei, la presentazione del logo ufficiale della candidatura – ideato dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato – salda idealmente passato e presente, patrimonio archeologico e cultura del cibo.

A fine anno, il 14 dicembre 2023, la conferenza “Italian Space Food” all’Ambasciata d’Italia a Washington introduce un’altra immagine forte: la pasta italiana che viaggia nello spazio con la missione Axiom 3, lanciata il 10 gennaio 2024 con prodotti italiani a bordo della ISS. Una scena pensata per raccontare come tradizione e innovazione possano convivere nella stessa storia.

Nel biennio 2024–2025 la candidatura entra stabilmente sull’agenda dei grandi eventi. Il G7 Agricoltura di Ortigia, l’iniziativa “Agricoltura È” a Roma e le principali fiere agroalimentari europee e mondiali diventano palcoscenici per spiegare la Cucina Italiana come sintesi di filiere produttive, territori, politiche pubbliche. In parallelo, la presenza in contesti sportivi di rilievo – dal Concorso ippico di Piazza di Siena alla Ryder Cup, dal Giro d’Italia al campionato mondiale di rugby – permette di associare il racconto del cibo a quello dello sport, del turismo, dell’immagine complessiva del Paese.

Il 10 giugno 2025, il gran finale del Tour Vespucci a Genova, con lo spettacolo di droni dedicato alla cucina italiana come patrimonio culturale, segna uno dei momenti simbolici di questa campagna. Pochi giorni dopo, il 29 giugno 2025, un grande evento a New York porta il tema nel cuore di Manhattan, con proiezioni a Times Square e un appuntamento al Gotham Hall alla presenza delle istituzioni e dell’ICE.

Il 21 settembre 2025, con “Il pranzo della domenica – Italiani a tavola”, la candidatura si trasforma in un rito condiviso: centinaia di piazze italiane e numerose ambasciate nel mondo ospitano momenti dedicati alla convivialità, riportando l’attenzione sulla tavola come spazio di relazione e identità.

Sul piano tecnico, il 10 novembre 2025 arriva il primo parere positivo sul dossier “La Cucina Italiana, tra sostenibilità e diversità bioculturale”. La decisione del 10 dicembre 2025 da parte del Comitato intergovernativo UNESCO chiude l’iter e apre una fase nuova, di tutela attiva.

Qui si innesta la lettura politica di Lollobrigida: il riconoscimento come leva per rafforzare il valore delle produzioni italiane, combattere le imitazioni, dare più peso alle filiere interne e alle comunità che vivono di cibo e di turismo. La cucina italiana, da oggi, è anche formalmente un bene immateriale dell’umanità. La sfida, per chi governa e per chi lavora lungo la filiera, sarà far sì che questo titolo resti ancorato all’autenticità quotidiana delle cucine, delle campagne, dei territori che lo hanno reso possibile.

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Coldiretti: taglio 2/3 giornate affonda flotta Italia

Coldiretti: taglio 2/3 giornate affonda flotta Italia

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Il taglio di due terzi delle giornate di pesca sarebbe un colpo mortale alla Flotta italiana, l’ennesimo inferto al settore da una Commissione Ue sempre più distante dalla vita delle imprese, come dimostra anche l’annunciata riduzione dei fondi. A denunciarlo alla vigilia del Consiglio Agrifish a Bruxelles è la Coldiretti Pesca, che sollecita un intervento per fermare la proposta dell’esecutivo Von der Leyen che rischia di cancellare con un tratto di penna anni di sacrifici, investimenti e impegno dei pescatori italiani sul fronte della sostenibilità, con chiusure di aree e zone vietate per tutela ambientale.

I tagli annunciati appaiono del tutto irragionevoli, con una drastica riduzione del 64% per lo strascico e del 25% per i palangari nel Tirreno, senza contare un ulteriore -12% sulla pesca demersale in Adriatico e un -10% sui pelagici. Grave anche il limite alle catture di gamberi di profondità nel Levante, Stretto di Sicilia e Mar Ionio.

Norme che metterebbero a rischio la tenuta di centinaia di aziende, l’economia delle comunità costiere e l’accesso dei consumatori al pescato italiano fresco e garantito, favorendo ancora una volta le importazioni. Basti ricordare che la dipendenza dall’estero per gli approvvigionamenti di pesce è passata nel giro degli ultimi quarant’anni dal 30% all’85%, secondo l’analisi di Coldiretti Pesca.

Nella stessa linea va la scelta della Commissione di ridurre da 6,1 miliardi a poco più di 2 miliardi le risorse per la filiera, con una perdita netta del 67%. Una proposta folle contro la quale i pescatori italiani si mobiliteranno assieme a Coldiretti il 18 dicembre a Bruxelles, con una manifestazione per denunciare l’ennesimo attacco al settore frutto di un estremismo ambientalista lontano dalla logica.

La filiera della pesca – conclude Coldiretti – conta in Italia circa 12mila imbarcazioni per un giro d’affari complessivo di poco meno di 750 milioni di euro.

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