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Italian Aquaculture Shifts Toward Responsible Farming

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Responsible aquaculture in Italy has undergone a silent transformation in recent years. It is not an overnight revolution, but a gradual shift driven by a market that increasingly demands transparency, measurable commitments, and a new way of communicating how fish is farmed. For many producers, this transition is no longer optional: it has become essential to remain competitive.

Large-scale retail, especially in Northern Europe, has raised the bar. Requests for traceable data, environmental indicators and independent verification are now more frequent, and Italian buyers are moving in the same direction. Across the supply chain, audits have become more rigorous: suppliers must provide precise documentation, while consumers and restaurants want to know exactly where their seafood comes from.

In this context, several companies have chosen to adopt internationally recognized standards to certify their performance. Among them is the Aquaculture Stewardship Council (ASC) certification, used by various Italian producers as a tool to demonstrate product quality — from the production site to the chain of custody. It is not a label to showcase, but a method requiring continuous commitment, constant monitoring and often costly decisions.

Producers who have embraced this path describe very tangible changes: improved water-quality control systems, updated protocols to reduce waste and mortality, and more attention to animal welfare — a topic considered secondary until a few years ago. In some sites, digital technologies now track the entire farming cycle: data that once lived only in a notebook now integrate with software that retailers use to finalize orders.

However, the transition is not without challenges. Many farmers operate with narrow margins and cannot always sustain large investments. Long authorisation procedures, regional differences affecting timelines and strategic choices, and a fragmented production structure all make it harder to achieve the economies of scale already reached by other countries.

Yet despite these obstacles, progress is visible. Companies investing in sustainability report stronger relationships with clients, better positioning and easier access to markets that once seemed out of reach. In coastal areas, responsible aquaculture has also become an economic anchor that ensures job continuity and fosters a more constructive dialogue with local communities, traditionally wary of farming sites.

The sector now stands at a crossroads: continue with a traditional modelfocused mainly on price, or move toward a more advanced approach that combinesquality, transparency and technologies that improve productivity. The second path — although more demanding — is already bringing tangible results to the most forward-looking companies.

Italy has everything needed to consolidate its leadership in the Mediterranean: technical expertise, biodiversity, a strong production tradition and increasingly aware consumers. The next step is to transform sustainability into an industrial pillar, not just a label on packaging. Those able to make this leap will be stronger and more credible in the markets of the future.

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Parliamo di Mare a Venezia: focus sul lavoro marittimo

Parliamo di Mare a Venezia: focus sul lavoro marittimo

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Dopo la tappa inaugurale di Pozzallo, dedicata a pesca e acquacoltura, il ciclo di incontri “Parliamo di Mare”, promosso dal Dipartimento per le Politiche del Mare della Presidenza del Consiglio, prosegue a Venezia con un approfondimento sul lavoro marittimo e sulle nuove competenze richieste dalla trasformazione della blue economy.
L’evento si terrà domani, sabato 29 novembre, all’Hotel Monaco & Grand Canal, dalle 9.30 alle 13, con la partecipazione del ministro per la Protezione civile e le Politiche del Mare Nello Musumeci e della ministra del Lavoro e delle Politiche Sociali Marina Elvira Calderone, collegata in videoconferenza.

La scelta di Venezia – città simbolo della marineria italiana – anticipa il taglio tematico della giornata: un confronto tra istituzioni, imprese, associazioni di categoria, formazione accademica e ricerca sul futuro delle professioni del mare.

Innovazione, interoperabilità e digitalizzazione

La prima parte dell’incontro sarà dedicata all’impatto della trasformazione digitale sul lavoro marittimo.
Si affronteranno temi come l’interoperabilità dei sistemi, la semplificazione amministrativa, l’adozione di strumenti digitali per rendere più efficienti i processi di bordo e di terra, e la necessità di armonizzare le procedure con gli standard internazionali.

La modernizzazione dei flussi informativi tra imprese, autorità marittime e formazione è considerata uno dei passaggi chiave per migliorare produttività, sicurezza operativa e competitività dell’intero comparto.

Formazione e nuove competenze per l’economia del mare

La seconda sessione sarà dedicata all’evoluzione delle competenze richieste alle professioni del mare.
Accademie, centri di formazione e rappresentanti dell’armamento discuteranno di ricambio generazionale, fabbisogni professionali, qualificazioni tecniche e nuovi profili che emergono con la transizione sostenibile e con la crescente digitalizzazione delle flotte.

In questo contesto, la collaborazione tra mondo dell’istruzione, imprese e pubblica amministrazione viene indicata come condizione indispensabile per allineare l’Italia alle evoluzioni del mercato marittimo europeo e globale.

Un ciclo che unisce territori e filiere

Con Venezia, “Parliamo di Mare” consolida la sua identità di piattaforma nazionale di confronto.
Il ciclo si sta configurando come un percorso che attraversa le principali città marittime italiane per affrontare i diversi pilastri dell’economia del mare: dalla pesca alla portualità, dalla formazione alla digitalizzazione, dalla governance mediterranea ai servizi marittimi.

L’obiettivo è costruire una visione condivisa tra istituzioni, ricerca e imprese, in un settore in cui innovazione tecnologica, sostenibilità e lavoro qualificato rappresentano ormai elementi indissociabili.

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Acquacoltura responsabile in Italia: opportunità e sfide per una filiera sempre più competitiva

Acquacoltura responsabile in Italia: opportunità e sfide per una filiera sempre più competitiva

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Negli ultimi anni l’acquacoltura italiana ha iniziato a cambiare pelle. Non si tratta di una rivoluzione improvvisa, ma di un processo graduale che sta coinvolgendo aziende grandi e piccole, spinte da un mercato che oggi chiede trasparenza, impegni concreti e un modo diverso di raccontare come si alleva il pesce. Per molti operatori del settore, questa transizione non è più un’opzione: è diventata la condizione necessaria per restare competitivi.

La grande distribuzione, soprattutto quella del Nord Europa, ha alzato l’asticella. Le richieste di dati tracciabili, indicatori ambientali e verifiche indipendenti si sono fatte più frequenti, e anche i buyer italiani stanno seguendo questa direzione. Chi lavora nella filiera lo vede ogni giorno: gli audit sono più rigorosi, i fornitori devono rispondere con documenti precisi, mentre consumatori e ristoratori vogliono sapere esattamente da dove arriva ciò che portano a tavola.

In questo contesto, alcune aziende hanno scelto di adottare standard riconosciuti a livello internazionale per certificare il proprio percorso. Tra questi figura anche quello dell’Aquaculture Stewardship Council, utilizzato da diverse realtà italiane come strumento per dimostrare la qualità del loro lavoro, dal sito produttivo fino alla catena di custodia. Non è un marchio da esibire, ma un metodo che richiede impegno continuo, monitoraggi costanti e scelte spesso costose.

acquacoltura responsabile in ItaliaChi ha intrapreso questa strada racconta cambiamenti molto concreti: sistemi di controllo della qualità dell’acqua più precisi, protocolli aggiornati per ridurre sprechi e mortalità, e una maggiore attenzione al benessere animale, tema che fino a pochi anni fa era considerato secondario. In alcuni impianti sono state introdotte tecnologie digitali per seguire l’intero ciclo di allevamento: dati che fino a ieri restavano sul quaderno dell’azienda oggi dialogano con software che la GDO consulta per finalizzare gli ordini.

Accanto ai progressi, emergono però difficoltà altrettanto reali. Molti allevatori lavorano con margini ridotti e non sempre riescono a sostenere investimenti importanti. A complicare il quadro ci sono iter autorizzativi lunghi, differenze territoriali che incidono sui tempi e sulle scelte strategiche, e una struttura produttiva frammentata che rende più difficile raggiungere quelle economie di scala che altri Paesi hanno già ottenuto.

Eppure, nonostante queste criticità, qualcosa si sta muovendo. Chi investe in sostenibilità racconta di rapporti più solidi con i clienti, di un posizionamento migliore e della possibilità di accedere a mercati che fino a poco tempo fa sembravano fuori portata. Nei territori, soprattutto nelle zone costiere, si vede anche un altro effetto: l’acquacoltura responsabile diventa un presidio economico che dà continuità al lavoro e riesce a dialogare meglio con le comunità locali, spesso diffidenti verso gli impianti.

Il settore si trova quindi davanti a un bivio. Continuare con un modello tradizionale, facendo leva principalmente sul prezzo, o investire in un approccio più evoluto che unisce qualità, trasparenza e tecnologie che permettono di lavorare meglio. La sensazione è che la seconda strada, pur più impegnativa, stia già dando risultati tangibili alle realtà più lungimiranti.

L’Italia ha tutte le carte in regola per consolidare la propria leadership mediterranea: competenze tecniche, biodiversità, una tradizione produttiva riconosciuta e un consumatore sempre più attento. Il passo successivo sarà trasformare la sostenibilità in un pilastro industriale, non solo un’etichetta da apporre sul packaging. Chi riuscirà a compiere questo salto potrà presidiare i mercati del futuro con maggiore forza e credibilità.

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InterMoma entra tra i Leader della Crescita 2026 con il più alto sviluppo in Italia

InterMoma entra tra i Leader della Crescita 2026 con il più alto sviluppo in Italia

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Ha solo quattro anni di vita ma è già diventata grande. Ed è cresciuta così velocemente, perdipiù in un mercato stabile e maturo, da mettersi in luce come una delle aziende più dinamiche d’Italia. A riconoscere l’exploit di InterMoma è l’edizione 2026 del rapporto “Leader della crescita” elaborato da Sole 24 Ore – Statista. Dall’analisi di un ampio set di informazioni economico-finanziarie relative al triennio 2021-2024, InterMoma è risultata l’azienda italiana con il maggior sviluppo, con un CAGR superiore al 218%, e la quarta nella classifica assoluta italiana dei Leader della crescita 2026.

“Questo risultato ci rende orgogliosi e ci spinge a proseguire lungo il percorso intrapreso – dichiara Luca Intermite, CEO di InterMoma – La nostra azienda è nata con un obiettivo chiaro: offrire alla distribuzione più qualificata una proposta molto specializzata di assortimento nel mercato delle conserve ittiche per le private label, proponendo anche referenze nuove rispetto a quelle già presenti a scaffale, ma sempre con un attento e mirato rapporto qualità prezzo. In questo modo puntiamo ad ampliare e diversificare l’offerta, coprendo tutte le fasce di mercato. La proposta di InterMoma si distingue per innovazione e valore aggiunto, elementi che la rendono particolarmente interessante per i nostri partner”.

La profonda conoscenza della filiera delle conserve ittiche, la capacità di individuare i prodotti giusti per soddisfare le nuove richieste del retail e dei consumatori, hanno permesso a InterMoma di crescere rapidamente, passando da 0,5 milioni di euro di ricavi del 2021 ai 18 milioni di euro del 2024.

Mettendo a frutto oltre trent’anni di esperienza nel settore delle conserve ittiche, Luca Intermite ha lasciato il suo ruolo di manager per diventare imprenditore e oggi guida InterMoma come CEO. L’azienda seleziona e distribuisce conserve ittiche, ottenute da una filiera trasparente e tracciabile che rispetta il mare e le persone, individuati con competenza e responsabilità nelle aree più vocate del mondo.

Oggi, InterMoma ha in portafoglio oltre 100 referenze e spazia dai prodotti core (come il tonno in tutte le sue declinazioni di tipologie, di qualità e di formato) ad altre conserve ittiche (come alici e sgombro), offrendo anche specialità più inusuali (come i filetti di orata, di branzino e di merluzzo).

Il 60% della produzione di InterMoma viene venduta con le private label delle principali catene distributive presenti in Italia. L’altro 40% è distribuito con i tre brand aziendali, posizionati in altrettanti segmenti di mercato: Costa de Arosa per la fascia premium grazie a una selezione di prodotti di alta qualità; Calata de Mari per chi cerca il miglior rapporto qualità/prezzo e Francesco Moretti per coprire con un’ampia gamma il segmento primo prezzo.

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Fiscalità blu: come le ostriche possono insegnare all’Italia una nuova idea di sostenibilità e competitività

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Nel dibattito sulla transizione ecologica, l’attenzione si concentra spesso su tecnologie e investimenti. Molto più raramente si guarda alla leva fiscale come strumento di sostenibilità. Eppure, secondo uno studio di Benedetta Coluccia e Pasquale Sasso per l’Osservatorio Agrifood Tech & Innovation dell’Università Digitale Pegaso, una parte della svolta verde potrebbe nascere proprio lì: nelle regole che governano le imposte.
L’idea è tanto semplice quanto dirompente.
E se le imposte non fossero soltanto un meccanismo per finanziare la spesa pubblica, ma un mezzo per orientare le scelte economiche e sociali? È l’approccio della fiscalità mission-oriented, ispirato alle teorie dell’economista Mariana Mazzucato, secondo cui gli Stati possono usare il fisco per perseguire obiettivi collettivi. Coluccia e Sasso portano questa prospettiva nel campo della Blue Economy, dimostrando che anche la leva fiscale può stimolare innovazione e pratiche sostenibili, se pensata come parte di una strategia di sviluppo e non solo come vincolo contabile.

Un caso esemplare: il potenziale nascosto delle ostriche

Per spiegare la loro visione, i ricercatori scelgono un esempio inatteso: l’ostricoltura italiana. Un comparto piccolo nei numeri, ma ricchissimo di significato. Le ostriche non sono soltanto un alimento pregiato. Ogni esemplare filtra litri d’acqua ogni ora, depura i fondali, riduce l’inquinamento e favorisce la biodiversità marina. Ogni allevamento, di fatto, rappresenta una piccola infrastruttura ecologica vivente.

Eppure il fisco italiano non riconosce questo valore. Le ostriche sono tassate con un’IVA al 22 per cento, la stessa dei beni di lusso. In Francia, Portogallo o Paesi Bassi l’aliquota oscilla tra il 6 e il 10 per cento. La differenza non è banale: in Italia si producono circa 300 tonnellate l’anno, contro le oltre 90 mila della Francia. Il risultato è che una filiera potenzialmente strategica per l’ambiente e per l’economia costiera rimane ai margini.

Sebbene ancora limitata nei volumi di produzione, l’ostricoltura italiana rappresenta una piccola eccellenza del Made in Italy. Le produzioni si distinguono per qualità, tracciabilità e valore gastronomico, con un valore unitario tra i più alti al mondo, calcolato in rapporto tra prezzo medio di mercato e quantità prodotta. Un primato che riflette l’elevato posizionamento qualitativo del prodotto e la reputazione costruita attorno alle coste italiane, dove la purezza delle acque e le tecniche di allevamento sostenibili fanno dell’ostrica un simbolo di eccellenza agroalimentare.

Nonostante ciò, il sistema fiscale non riconosce né l’impatto ambientale positivo né il valore economico e identitario di questo prodotto. Secondo lo studio, una riduzione dell’IVA – prevista dalla Direttiva europea 2022/542 per i prodotti con valore ambientale – non rappresenterebbe un privilegio, ma un atto di coerenza. Significherebbe riconoscere fiscalmente il contributo positivo dell’ostricoltura alla qualità delle acque e alla salute degli ecosistemi. E trasformare una tassa in uno strumento di politica industriale, capace di premiare chi genera valore collettivo.

Verso una fiscalità blu

La proposta di Coluccia e Sasso non si limita al caso delle ostriche. Indica un nuovo modo di pensare la fiscalità: un sistema capace di integrare economia e ambiente, premiando comportamenti virtuosi e disincentivando pratiche dannose. Una fiscalità “blu”, in grado di accompagnare la transizione ecologica senza scaricarne i costi sui cittadini o sulle imprese più fragili.

Nel loro lavoro, i ricercatori immaginano anche la creazione di un Osservatorio nazionale sulla fiscalità e la Blue Economy, per raccogliere dati, valutare l’impatto delle politiche fiscali e guidare le scelte di governo. Accanto a questo, propongono l’istituzione dell’OysterTech – Blue Resilience Lab, un laboratorio di innovazione dedicato allo sviluppo tecnologico dell’acquacoltura sostenibile. Due strumenti che, insieme, potrebbero aiutare l’Italia a superare la frammentazione delle politiche ambientali e a costruire una governance più coerente della sostenibilità.
Dietro la proposta c’è una convinzione precisa: la fiscalità può essere una leva di competitività, non solo di correzione. Un sistema di imposte orientato a obiettivi ambientali può generare valore pubblico, stimolare ricerca e investimenti, creare occupazione qualificata e attrarre capitale umano. In questo senso, il fisco diventa parte integrante della strategia industriale del Paese.

Dal mare un modello per la crescita sostenibile

Il caso delle ostriche non è dunque un episodio isolato, ma il simbolo di un possibile cambiamento di paradigma. L’Italia, con i suoi ottomila chilometri di coste, un patrimonio marino tra i più ricchi d’Europa e una tradizione di eccellenze produttive, ha tutte le condizioni per guidare la svolta blu del continente. Ciò che serve è una visione che connetta fiscalità, innovazione e sviluppo territoriale.
Nel mondo post-Green Deal, la sostenibilità non è più una voce di spesa, ma una scelta economica. La fiscalità blu rappresenta una delle chiavi per tradurre questa idea in pratica. Riconoscere fiscalmente il valore dei servizi ecosistemici significa rendere la sostenibilità un vantaggio competitivo e non un onere.

Come scrivono Coluccia e Sasso, “la fiscalità non è un vincolo, ma una leva di cambiamento”. Una leva che può spingere il Paese verso un modello di crescita più intelligente, più giusto e più coerente con i tempi. Forse il futuro della Blue Economy italiana parte proprio da qui, da un’ostrica che da lusso diventa simbolo di rigenerazione.

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