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Chi entra all’alba in un magazzino di distribuzione ittica potrebbe pensare che tutto sia rimasto com’era vent’anni fa: le pedane che si incrociano, le etichette che svolazzano, la voce del capoturno che taglia l’aria come un richiamo. Eppure, se si osserva meglio, qualcosa è cambiato davvero. Lo si capisce dal modo in cui gli operatori controllano un lotto, dalla cura quasi maniacale con cui segnano un codice o misurano una temperatura. È come se il prodotto, oggi, chiedesse un’attenzione diversa. Più profonda.
La verità è che la catena di custodia non è più un dettaglio tecnico relegato alla fine dei documenti. È diventata un pilastro del mercato. I buyer vogliono vedere percorsi tracciati, passaggi registrati, informazioni coerenti. E non per diffidenza, ma perché la richiesta di trasparenza è esplosa: proviene dai consumatori, dalle insegne, dalla ristorazione più attenta, e ora è arrivata persino dentro i magazzini, dove ogni gesto sembra pesare un po’ più di prima.
La distribuzione italiana si è trovata al centro di questa trasformazione. Molte aziende, spinte dal mercato estero e in particolare dalla GDO del Nord Europa, hanno capito che non bastava più “fare le cose per bene”: bisognava poterlo dimostrare. E così, senza grandi annunci, si sono avvicinate a standard internazionali in grado di dare forma e metodo a questo nuovo modo di lavorare. Tra questi, diversi operatori hanno scelto lo schema dell’Aquaculture Stewardship Council, soprattutto per la parte dedicata alla catena di custodia, che impone regole precise su separazione dei lotti, documentazione, audit e coerenza delle informazioni lungo il tragitto del prodotto.
La cosa interessante è che questo cambiamento non arriva dall’alto, ma dal basso. Da un operatore che si ferma un minuto in più per controllare un’etichetta, da un responsabile qualità che riscrive una procedura perché “così non è abbastanza chiaro”, da un importatore che decide di digitalizzare i movimenti perché il rischio di confusione tra lotti è troppo alto. Sono gesti piccoli, quotidiani, ma che nel tempo ridefiniscono una cultura aziendale intera.
Chi ha già affrontato un audit di catena di custodia lo sa bene. Non si tratta solo di mostrare i registri: bisogna raccontare un percorso. Spiegare perché quel pesce è passato di lì, in quel preciso ordine, e non altrove. Dimostrare che ogni informazione, dal primo documento alla stampa dell’etichetta finale, ha seguito una logica comprensibile e verificabile. E spesso, durante questi controlli, emergono punti ciechi che nessuno aveva mai notato prima. È in quei momenti, un po’ tesi e un po’ rivelatori, che si capisce quanto la tracciabilità sia diventata una competenza, non un obbligo.
I benefici non arrivano tutti insieme, ma arrivano. Audit più fluidi. Meno contestazioni. Rapporti commerciali più stabili, perché mostrare coerenza — vera, documentata — crea una fiducia che difficilmente si ottiene in altri modi. Alcune aziende raccontano di come il semplice fatto di poter ricostruire il movimento di un prodotto in pochi minuti abbia cambiato il modo in cui vengono percepite dai buyer. “Ora sappiamo che possiamo chiedervi qualunque cosa e voi avete la risposta”, si sono sentite dire.
Certo, non è un percorso privo di ostacoli. I costi ci sono, e non sempre le PMI possono affrontarli a cuor leggero. Le procedure richiedono disciplina e, per molte squadre, abitudini completamente nuove. Ma se c’è un elemento che accomuna chi ha scelto di intraprendere questo cammino è la consapevolezza che il mercato non tornerà indietro. Le catene di custodia rigorose non saranno più un vantaggio: diventeranno uno standard.
Alla fine, lavorare con la tracciabilità in questo modo significa una cosa semplice, ma impegnativa: prendersi la responsabilità dell’intero percorso del prodotto, non solo della parte che si tocca con mano. Significa guardare un lotto e sapere che non è solo un’unità di magazzino, ma un frammento di una storia che parte da lontano e deve arrivare intatta fino allo scaffale.
In un settore dove la fiducia ha sempre avuto un peso enorme, la catena di custodia è diventata il modo più solido — e forse anche il più onesto — per costruirla. E la distribuzione italiana, pur con tutte le sue complessità, sta imparando a raccontare questa storia con una precisione che fino a poco tempo fa nessuno avrebbe immaginato necessaria.
L’articolo Catena di custodia e trasparenza: come cambia la distribuzione del pesce in Italia proviene da Pesceinrete.
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